Gentile direttore,
la lettura di un bell’articolo di Maurizio Bonati sull’ultimo numero di Ricerca e Pratica (La casa della felicità, della libertà… della comunità) mi ha stimolato alcune riflessioni che partono ancora un volta dai dati dell’ultimo monitoraggio dell’Agenas sullo stato di avanzamento nelle Regioni del DM 77 , dati impietosi con solo il 3% delle Case della Comunità (CdC) dotate di tutti i servizi e con una presenza continuativa di medici e infermieri come previsto dal DM 77 per le case della comunità hub e quelle spoke. E’ evidente in quel monitoraggio il grosso divario tra l’Emilia-Romagna e tutte le altre Regioni con le sue 164 CdC operative, anche se a un diverso livello, sulle 177 previste.
Anziché chiederci perché altrove non funzionano proviamo per una volta a chiederci perché in questa Regione invece funzionano. La risposta la troviamo nel sito stesso della Regione in cui leggiamo come le Cdc siano state la naturale evoluzione delle Case della salute e come e quando sono nate in quella Regione le Case della Salute. Le prime indicazioni regionali risalgono al 2010 e questa è la prima frase con cui esse iniziano: “I sistemi sanitari dovranno affrontare, nei prossimi anni, scenari sempre più caratterizzati da un divario tra risorse disponibili e domanda di salute, destinata a crescere a causa dell’allungamento dell’aspettativa di vita e della maggior incidenza di patologie croniche.” Poi la evoluzione delle Case della Salute è stata in Emilia-Romagna accompagnata da ulteriori documenti di indirizzo, come quello del 2016 per il coordinamento e lo sviluppo delle comunità di professionisti e della medicina d'iniziativa, e da progetti formativi come quello relativo alla formazione professionale.
In sostanza la Regione Emilia-Romagna ha anticipato con quelle tre prime righe riprese sopra la realizzazione delle indicazioni del Piano Nazionale della Cronicità del 2016, come aveva del resto anticipato molte delle indicazioni del DM 70 del 2015 sul riordino delle reti ospedaliere, avviato in Emilia-Romagna sin dal Piano Sanitario Regionale 1999-2001, approvato con deliberazione del Consiglio regionale n. 1235 del 22 settembre 1999. In questa stessa Regione i Distretti sono forti, così come è forte la integrazione degli interventi nell’area sociale, sociosanitaria e sanitaria, supportata storicamente dai Piani di zona distrettuali. Poi anche lì i problemi ci saranno, ma siamo comunque dentro un percorso ragionevolmente consolidato.
Nascono spontanee due domande: è necessario un Decreto per far nascere le Case della Comunità? E poi, basta un Decreto per far nascere le Case della Comunità? O più in generale: servono e/o bastano i Decreti per introdurre le innovazioni organizzative più significative in un sistema sanitario regionale? Il discorso fatto per le Case delle Comunità e il riordino delle reti ospedaliere valgono anche per le reti cliniche, i PDTA (o come li si vuole chiamare), gli infermieri di famiglia, le ambulanze con i soli infermieri, le forme intelligenti di task shifting, la introduzione della telemedicina, i centri per la gestione delle urgenze con i codici minori, la gestione sociale delle demenze, la oncologia di prossimità, la cultura della assistenza al fine vita e così via. Dove i sistemi sono maturi non servono i decreti o i piani nazionali (come quello Demenze) e dove non lo sono i decreti non bastano.
Per far funzionare il Chronic care model e quindi le Case della Comunità serve una politica matura, una cultura di sanità pubblica che fiorisca diffusa quasi in modo spontaneo (compresi Università e Ordini professionali) e che sia condivisa coi cittadini. Dove queste condizioni non esistono vanno create progressivamente anche attraverso i Decreti che però vanno contestualizzati, applicati con il sostegno di iniziative formative e monitorati con un approccio di sistema e quindi facendo in modo che il territorio cresca perché l’ospedale diminuisce e facendo in modo di far aumentare la public health literacy (e quindi la competenza sui temi della sanità pubblica) a tutti i livelli e in tutti gli ambienti (politica e media compresi). Poco di tutto questo è stato fatto nella stragrande maggioranza delle Regioni e questo spiega ritardi e vuoti in queste stesse Regioni, a partire dalla mia (le Marche).
PS Non ho interessi né legami familiari con l’Emilia-Romagna. Mia mamma è nata in un Comune (Casteldelci) poi passato con un referendum dalle Marche alla Emilia-Romagna, ma per me quel territorio è ancora e sempre sarà un pezzo della Regione Marche.
Claudio Maria Maffei