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Accesso aperto a Medicina: occasione mancata per ripensare davvero la formazione alla cura

di Paola Arcadi

04 LUG -

Gentile Direttore,

il 4 giugno 2025 la Ministra Bernini ha firmato il decreto di attuazione della riforma che rende libero l’accesso al primo semestre del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, introducendo un sistema di valutazione posticipata attraverso tre prove nazionali a fine semestre (Chimica, Fisica, Biologia). Il numero chiuso non viene abolito, ma semplicemente spostato a novembre/dicembre.

Il decreto prevede, inoltre, che gli studenti si iscrivano anche a un “corso affine”, a iscrizione gratuita e senza obbligo di frequenza. Tra questi corsi, individuati annualmente secondo criteri oggettivi dal MUR, rientrano anche alcuni corsi di laurea delle Professioni sanitarie.

Questa misura, pur presentata come una garanzia per gli studenti, finisce per veicolare un messaggio culturale chiaro e preoccupante: l’idea che le professioni sanitarie siano una seconda opzione, una strada parallela ma subordinata, da percorrere nel caso in cui non si riesca a proseguire in Medicina.

Chi si occupa di formazione nelle professioni della salute, in primis infermieristica, sa quanto questa narrazione gerarchica condizioni le scelte dei giovani, la percezione sociale delle diverse professioni e persino la motivazione degli studenti che le intraprendono con convinzione.

È legittimo che un giovane aspiri a percorsi ritenuti più attrattivi, anche per le maggiori opportunità o il prestigio percepito. Ma proprio per questo, lo sforzo dovrebbe andare nella direzione opposta: rendere attrattive tutte le professioni della cura, non come alternative di ripiego, ma come scelte piene di senso, responsabilità e impatto umano e sociale.

In questa prospettiva, lo sforzo della formazione sanitaria dovrebbe andare con decisione nella direzione di costruire percorsi realmente multidisciplinari, capaci di mettere in relazione saperi, competenze e prospettive differenti.

Non si tratta solo di integrare qualche insegnamento trasversale o di organizzare attività comuni. Si tratta di ripensare i modelli formativi affinché favoriscano, fin dall’inizio, la comprensione reciproca tra professionisti destinati a lavorare insieme.

Significa creare spazi condivisi in cui studenti di Medicina, Infermieristica e delle altre professioni sanitarie possano confrontarsi sulla complessità della cura, riconoscere l’interdipendenza dei ruoli, imparare a costruire linguaggi comuni.

La formazione a silos, ancora oggi largamente dominante, frammenta lo sguardo clinico, incoraggia specialismi autoreferenziali, ostacola la costruzione di un approccio integrato al paziente.
Eppure, chi lavora nei contesti di cura lo sa: le persone non arrivano mai con un bisogno unico, ma con traiettorie di vita complesse, che attraversano dimensioni cliniche, relazionali, sociali, esistenziali.
Non sono “casi” da assegnare a una singola competenza, ma esperienze da accogliere attraverso un lavoro collettivo, coordinato, continuo.

Ecco perché parlare di accesso non basta.
Ecco perché questa riforma rischia di acuire la frammentazione e l’insoddisfazione che già attraversano il sistema formativo sanitario, consolidando percorsi paralleli che faticano a dialogare.
Quello che serve davvero è ripensare cosa significa formare alla cura: costruire percorsi che preparino professionisti capaci di lavorare insieme, di condividere responsabilità, di abitare la complessità.
Una cura che non si esaurisce in una disciplina, ma si costruisce nell’incontro tra saperi, in una visione che tiene insieme.

Paola Arcadi
Direttrice CdL in Infermieristica – ASST Melegnano Martesana, Università degli Studi di Milano
Presidente Accademia Scienze Infermieristiche



04 luglio 2025
© Riproduzione riservata

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