Violenza sui sanitari: il bersaglio di turno di una società aggressiva

Violenza sui sanitari: il bersaglio di turno di una società aggressiva

Violenza sui sanitari: il bersaglio di turno di una società aggressiva

Gentile Direttore,
mi aggancio alla questione delle aggressioni ai sanitari perché parte in causa: lavoro da anni in pronto soccorso/118 e nella mia carriera ho subito almeno 4 aggressioni fisiche e innumerevoli altre verbali. Premetto che le statistiche sono a mio modesto parere incomplete, perché non tutte le aggressioni (verbali soprattutto, ma persino quelle fisiche) non sempre vengono denunciate. Io stesso sono ricordo all’INAIL 1 volta su 4 e solo per quelle fisiche, e là ho scoperto che (soltanto nella mia azienda) ne vengono denunciate al servizio di prevenzione e sicurezza oltre 600 l’anno. Quasi 2 al giorno, spesso in “prima linea”.

Vi sono proposte a livello nazionale. Si è partiti con l’autodifesa. Noi sanitari del 118 seguiamo appositi corsi sulla gestione dei comportamenti aggressivi: ci insegnano come riconoscere e raffreddare le intenzioni bellicose, senza fomentarle, perché bisogna evitare l’attacco, e restare in zona di sicurezza (la prima casella di ogni algoritmo operativo).

L’autodifesa sarebbe un passo ulteriore, da prendere però con cautela:siamo di fronte a soggetti sofferenti, un tempo si diceva “in minorità”. Molto anni fa ricevetti un terribile attacco da un genitore insofferente al pianto del bambino al quale stavo prelevando poche gocce di sangue dal tallone per lo screening neonatale: mi tirò un pugno sulla nuca, a tradimento, mentre stavo ancora eseguendo il prelievo. Persi la vista per qualche minuto. Che fare, per evitare un fulmine tale? E soprattutto, quale autodifesa avrei mai potuto mettere in atto? E come?

Altra aggressione che ricordo bene fu un pugno in pieno viso sferratomi da una paziente da inviare in dialisi, assopita. Risvegliatasi bruscamente, forse non del tutto consapevole data la grave insufficienza renale che l’attanagliava (con tutte le conseguenze sul cervello che un’intossicazione metabolica può dare), sferrò un pugno in pieno volto a chi si trovò a svegliarla perché era arrivata l’ambulanza dei trasferimenti al centro dialisi: io.

Questi semplici casi (per i quali mi limitai a una semplice chiacchierata con le mie coordinatrici) spiegano che la questione “autotutela” e “autodifesa” non è affatto semplice nè scontata.

Per l’episodio che invece fu segnalato come infortunio (che vide coinvolti altri due operatori oltre a me), furono attivate le forze dell’ordine, e dalla direzione si pensò alle telecamere di sorveglianza e addirittura a una guardia giurata, sulla scorta di quanto operante già in ospedali più grandi.

Di recente sono scaturite proposte a livello nazionale di difesa interforze, come l’attivazione dell’esercito. “Ospedali sicuri”, mi verrebbe da pensare parafrasando “strade sicure”. Qui si è fatto apripista il Friuli-Venezia Giulia che conosco bene e frequento per legami famigliari: le guardie mediche piantonare dagli alpini. Mi ha toccato il cuore, proprio perché figlio di un alpino. Vedersi soccorsi nel momento del soccorso (scusate il gioco di parole) da una figura amica e famigliare è psicologicamente di grande aiuto.

Ora un’esponente del mondo politico propone di elevare il medico a pubblico ufficiale (che aggraverebbe la posizione di chi vi si oppone). Ma questo mi pare forse una soluzione formale (di status) che non migliora la sicurezza fisica effettiva: lo possono testimoniare le centinaia di capitreno e controllori aggrediti, benché pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni (come ampiamente pubblicizzato su treni e stazioni). E poi, sarebbe una tutela solo per il medico, non certo per gli altri professionisti sanitari che non godrebbero di quello status.

Ritorno però agli algoritmi dell’emergenza a me tanto famigliari. Sono sempre anticipati dalla verifica della sicurezza. Passaggio non trascurabile, che osservo e rispetto come sacrosanto perché un soccorritore aggredito e fuori uso non serve a nessuno. E rischia di portarsi appresso un brutto disturbo post-traumatico: ogni anno perdiamo almeno un collega suicida, e ci chiediamo perché.

Speriamo che la popolazione abbassi la propria aggressività in generale. Forse aveva ragione Montanelli quando ipotizzava che una guerra ogni 20-30 anni (come accadeva puntualmente fino a un secolo fa) sfogasse gli animi. Pare che la società non riesca a stare molto senza menare le mani. Si cerca una giustificazione nei tagli alla sanità, nel disagio post-crisi economica, nei crescenti comportamenti a rischio e di abuso.
 
Tutto plausibile. Ma dov’è quel freno che fa contare fino a 10 ed evita di scaraventare la propria frustrazione su chi è lì per prendere in carico il malessere?
 
Ivan Favarin
Infermiere 

Ivan Favarin

04 Agosto 2018

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