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Farmaci mancanti ed export parallelo: se per legge conviene venderli all’estero

di Fabrizio Gianfrate

Un fenomeno legale, anzi incentivato dall’EU e dai principali Paesi del nord Europa. E non ci si deve stupire se le industrie multinazionali si difendono contingentando le quantità ai grossisti limitandole a quanto necessario al solo loro mercato locale. Tutto legale e legittimo, eppure ne deriva un disagio ai cittadini. Ma una soluzione c'è.

20 SET - Per fronteggiare le sempre più incidenti, o apparenti tali, problematiche di carenza di farmaci dovute all’esportazione parallela le Associazioni di settore hanno sottoscritto pochi giorni fa un documento frutto della collaborazione tra e con le principali Istituzioni.
 
Premetto che per dimensionarne correttamente la gravità, tali carenze in farmacia andrebbero calcolate sia nel numero (che % dei 450 milioni di ricette annue compilate in Italia) che nella qualità (quanti di quei farmaci che non si trovano sono davvero insostituibili dal medico con altri del nostro ridondante prontuario). Tuttavia, vero o presunto, il problema è stato più volte rumorosamente sollevato imputandone le cause all’esportazione parallela e quindi è doveroso occuparsene.
 
Il fenomeno della distribuzione parallela di farmaci, o “parallel trade” (PT) dei farmaci origina dal livello basso dei prezzi in Italia, dal meccanismo di remunerazione della distribuzione ad esso proporzionale e dalla scarsa redditività percentuale della distribuzione intermedia, oltre che dai meccanismi di difesa messi in atto dalle industrie.
 
Non deve stupire se mancano i farmaci sotto casa perché se ne vanno all’estero dove sono pagati di più, essendo il tutto legale, anzi incentivato dall’EU e dai principali Paesi del nord Europa. Così come non deve stupire se le industrie multinazionali si difendono contingentando le quantità ai grossisti limitandole a quanto necessario al solo loro mercato locale. Tutto legale e legittimo, eppure ne deriva un disagio ai cittadini. Sul quale il legislatore italiano non può molto scontrandosi appunto con le regole comunitarie.
 
Così non resta che un accordo di buona volontà condiviso tra le parti, Istituzioni comprese, a fare di tutto per minimizzare le carenze. Inutile dire che laddove ci fossero comportamenti illegali basterebbe l’autorità giudiziaria e non servirebbe un accordo tra le parti, necessario invece proprio perché il processo di export parallelo che porta infine alla mancanza di farmaci è appunto lecito.  
 
Provo a sintetizzare la questione però entrando un poco più nel dettaglio. Il PT è come noto l’attività condotta da distributori paralleli, trader, regolarmente autorizzati dalle autorità regolatorie, che comprano farmaci in Paesi a prezzi bassi, soprattutto Italia, Grecia e Spagna, per venderli in Paesi dai prezzi più elevati come Regno Unito, Germania, Paesi scandinavi e altri prevalentemente nel nord Europa, dove i prezzi dei medicinali regolati dalle rispettive sanità pubbliche sono appunto mediamente più elevati, a volte in misura molto rilevante.
 
L’attività ovviamente si concentra solo sui relativamente pochi farmaci dal differenziale di prezzo più elevato tra il Paese di export e quello/i di import, infatti quelli poi carenti in farmacia. Obbligo normativo del trader, per la precisione dell’importatore parallelo, è rietichettare il farmaco in lingua locale rendendo perfettamente trasparente sull’etichetta il titolare del PT
 
Il PT dei farmaci si stima valga circa il 7 per cento del mercato farmaceutico continentale, intorno ai 15 miliardi di euro. Per alcuni medicinali di largo uso la quota di mercato importata parallelamente in alcuni Paesi supera il 60 per cento. Si stima che tra il 18 e il 20 per cento di tutti i farmaci venduti in Grecia siano destinati in modo parallelo ad altri Paesi.
 
Tecnicamente definito come “arbitraggio”, il PT è incentivato e regolamentato dall’UE nella logica della libera circolazione delle merci (Trattato di Roma, artt. 28 e 30) e incentivato dalle sanità dei Paesi importatori per risparmiare sulla spesa farmaceutica pubblica anzi in alcuni casi reso obbligatorio, come in Germania dove il farmacista deve per legge dispensare una certa quota di farmaci importati parallelamente, o in UK dove alla farmacia va parte di quel risparmio (clawback) giratogli dal NHS. Tuttavia i profitti maggiori vanno perlopiù legittimamente ai trader, attore centrale del processo.
 
I produttori quindi nel PT si trovano a vendere nei Paesi a prezzi bassi, del sud Europa, farmaci poi distribuiti in quelli nordici, dove invece avrebbero potuto venderli a prezzi sensibilmente più elevati, con un mancato introito talvolta rilevante. L’effetto economico principale consiste quindi nel trasferimento di reddito da produttore al trader e, in misura inferiore, alle sanità dei Paesi d’importazione.
 
C’è anche una redistribuzione della redditività tutta interna alla stessa multinazionale del farmaco esportato parallelamente, dalle sussidiarie dei Paesi importatori a quelle dei Paesi esportatori. Narrano le leggende del settore che all’inizio del fenomeno, primi anni ’90, i manager delle sussidiarie italiane e spagnole di multinazionali abbiano beneficiato non poco delle vendite di farmaci poi esportati parallelamente e consumati nel nord Europa, in barba ai loro colleghi analoghi di Germania, UK, Svezia, ecc., a cui di fatto sottraevano vendite (e bonus, incentivi, stock options, performance, carriere, ecc.).
 
I produttori oggi si difendono legittimamente dal PT limitando le quantità vendute ai distributori nei Paesi a prezzi bassi alle necessità del mercato nazionale, così da minimizzarne la loro esportazione parallela.  Il problema della carenza di farmaci nella farmacia sotto casa origina appunto da qui, nasce dalla convenienza del grossista-distributore, e talvolta della farmacia nei panni di distributore, ad esportare parallelamente quelle quantità fornite contingentate dalle industrie anziché venderle direttamente sul mercato locale.
 
Questo perché i margini di guadagno ad esportarle parallelamente sono superiori a quelli se venduti sotto casa. Tutto legale, legittimo e ottemperante alle più elementari regole del libero mercato. Se non fosse che poi a volte mancano quei farmaci in centro a Milano o a Roma perché legittimamente andati via verso paesi e mercati più redditizi.
 
Dati gli scarsi margini di guadagno di legge per legge, insieme al basso livello dei prezzi che ne limita la proporzionale profittabilità, al distributore, anche se non primariamente parallel trader, diventa quindi più conveniente esportare quei farmaci contingentati anziché distribuirli sotto casa, causando così le carenze denunciate. Ecco il razionale dell’accordo stipulato, una sorta di impegno alle buone intenzioni, tuttavia non vincolante in termini normativi. Hanno quindi tutti ragione: chi persegue un profitto superiore (grossisti e farmacie) e chi vuole difendere il proprio (le industrie “contingentatrici”). Ma di più il paziente che non trova il farmaco in farmacia.
 
Da parte dei produttori, oltre al contingentamento delle quantità sono stati adottati in passato altri meccanismi di contrasto al PT, a riempire gli archivi delle cause legali nelle corti di giustizia Ue derivatene.
 
Tra questi va ricordato il doppio prezzo praticato dal produttore al distributore per lo stesso farmaco, maggiorato per le quantità destinate all’export parallelo. Benché ritenuto impraticabile dalle corti di giustizia Ue, a meno di giustificazioni dettate da urgenze sociali e sanitarie (Ramsey price).
 
In passato ho ipotizzato una opzione derivata dal doppio prezzo ma declinata in altri termini: un doppio prezzo applicato non direttamente ma sotto forma di payback. In questa ipotesi, le aziende farmaceutiche vendono a prezzo “alto” sul mercato nazionale e su quello estero, poi sui medicinali acquistati dal SSN praticano uno sconto che corrisponde alla differenza tra prezzo “alto” e prezzo d’acquisto normalmente concertato con l’AIFA. Le quantità potrebbero essere definite dalle documentazioni doganali dalle quali determinare esattamente i volumi in uscita. Sarebbe un’opzione a costo zero per il SSN, rimanendo infatti intatta la spesa farmaceutica.
 
A proposito di tracciatura, va ricordato il rischio odierno del potenziale utilizzo illecito delle etichette dei farmaci esportati parallelamente che potrebbero rientrare in circuiti di rimborsabilità fittizia e illegale da Asl e ospedali.
 
Altre proposte appaiono presumibilmente di difficile attuazione, come il prezzo unico UE, utopia sin dai fallimentari Tavoli Bangemann dei primi anni Ottanta, o un avvicinamento dei ridottissimi prezzi italiani a quelli degli altri Paesi “Big 5 Ue”, a ridurre il differenziale alla base del fenomeno.
 
Ovviamente una soluzione ideale consisterebbe in un sistema di remunerazione più premiante la distribuzione (intermedi e farmacie) che limiterebbe il dirottamento dei farmaci verso l’estero, ridiventando redditizio venderli sotto casa.
 
In conclusione, il PT dei farmaci, al netto della vera o presunta entità del problema dei farmaci carenti, richiama l’attenzione sull’ennesima anomalia di questo settore nel contempo di libero mercato ma ad elevatissima presenza di regolamentazione. Libero mercato e libera circolazione dei beni sono costretti forzosamente convivere con la rigida regolamentazione e pianificazione economica del settore, in primis l’assegnazione statale dei prezzi. È un ossimoro difficilmente risolvibile, una emulsione insolubile e ad alto rischio di distorsioni, come appunto sta accadendo.
 
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria

20 settembre 2016
© Riproduzione riservata

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