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Covid. Istat: “Italia insieme alla Spagna fra i paesi più colpiti nella Ue nel biennio 2020-2022”


Pubblicato il rapporto Annuale dell’Istituto. Il nostro Paese, però, emerge a livello europeo, secondo i dati raccolti da Eurobarometro, come quello con la maggiore adesione alle politiche sanitarie adottate a livello governativo. L’assoluta utilità dei vaccini nel contenere la diffusione delle complicanze della pandemia viene riconosciuta in Italia da quasi 9 persone adulte su 10, e altrettanti li ritengono del tutto sicuri. IL RAPPORTO

08 LUG -

Con 16 milioni di contagi e oltre 160mila decessi associati all’infezione da SARS-CoV-2 tra marzo 2020 e aprile 2022, l’Italia è stata, insieme alla Spagna, fra i paesi Ue maggiormente colpiti dalla pandemia, soprattutto nella prima fase, con un netto miglioramento nel 2021 in concomitanza dell’avvio della campagna vaccinale. È quanto rileva l’Istat nel suo Rapporto Annuale.

L’analisi Istat
La pandemia ha avuto un impatto rilevante su tutte le componenti della dinamica demografica: l’elevato eccesso di mortalità registrato nel 2020 è stato accompagnato dal quasi dimezzamento dei matrimoni e dalla forte contrazione dei movimenti migratori a cui si sono aggiunti, nel 2021, gli effetti recessivi dovuti al calo delle nascite.

L’emergenza sanitaria ha modificato le abitudini di vita della popolazione, con un impatto rilevante sui vari aspetti della quotidianità. Nel 2021 sono emersi chiari segnali di un ritorno alla quotidianità pre-Covid, anche se alcuni cambiamenti negli stili di vita sembrano persistere e potrebbero essere destinati a durare nel tempo.

Riflessi importanti si sono osservati anche sul mercato del lavoro, con l’esacerbarsi delle diseguaglianze a sfavore di segmenti della popolazione già in condizioni di vulnerabilità alla vigilia della pandemia. L’Italia si posiziona fra i paesi Ue dove è stata più marcata la riduzione degli occupati tra il 2019 e il 2020. Come conseguenza si è ulteriormente aggravato il divario rispetto alla media Ue27 per tutti i principali indicatori del mercato del lavoro.

L’impatto della crisi sul tessuto produttivo italiano è stato profondo e diffuso ma circoscritto nel tempo. A livello aggregato l’attività economica è tornata sui livelli di fine 2019, però non è stato così per tutti. D’altra parte questa crisi, più che in passato, ha spinto numerose imprese a sperimentare cambiamenti organizzativi e tecnologici importanti che hanno permesso di mitigare gli effetti della crisi e ne rappresentano un’eredità favorevole.


L’andamento della pandemia
In Italia, dall’inizio dell’epidemia (marzo 2020) fino a fine aprile 2022 sono stati segnalati oltre
16 milioni di casi confermati di infezione da SARS-CoV-2 e circa 160mila decessi associati alla diagnosi di infezione. Il 48% dei decessi è avvenuto nel 2020, il 37% nel 2021 e il 15% tra gennaio e aprile 2022.

Nel confronto con il quinquennio pre-pandemico 2015-2019, nel 2021 si continua a registrare un eccesso di mortalità totale (63mila unità in più), ma in calo rispetto al 2020 (-37mila), anche nei segmenti più colpiti dalla prima fase della pandemia.

Nell’Ue27 il totale dei decessi in eccesso ha superato i 500mila nel 2020 e i 650mila nel 2021, con un contributo dell’Italia che è passato dal 19% circa del primo anno di pandemia a meno del 10% nel 2021 e nei primi mesi del 2022.

Nel nostro Paese il tasso standardizzato di mortalità (885 decessi per 100mila abitanti) è in calo nel 2021 rispetto al 2020 (941) e si conferma ben sotto la media europea (1.056) che, al contrario, registra ancora nel 2021 una crescita sull’anno precedente. Nei primi due mesi del 2022 il trend decrescente del tasso standardizzato italiano prosegue e inizia anche a livello europeo.

Italia e Spagna sono tra i paesi Ue27 più colpiti dalla prima ondata della pandemia, con un incremento del tasso standardizzato di mortalità che tocca il punto di massimo rispettivamente a fine marzo (+76,8%) e all’inizio del mese di aprile 2020 (+140,8%). Nei paesi dell’Est Europa l’epidemia ha prodotto i suoi effetti più devastanti solo nei mesi successivi, con incrementi percentuali del tasso standardizzato che nella seconda metà di ottobre 2021 ha rag­giunto il +122,0% in Romania, seguita da Bulgaria e Slovacchia (rispettivamente +90,8% a inizio novembre e +78,9% a inizio dicembre).  

L’elevato eccesso di mortalità registrato nei due anni di pandemia ha comportato una diminuzione della speranza di vita in quasi tutti i paesi europei, seppure di entità e durata differenziate. In Italia e Spagna il calo si è concentrato nel 2020 con un accenno di ripresa nel 2021. In altri paesi, in particolare dell’Est europeo, la riduzione è stata accentuata soprattutto nel 2021. Alcuni, come Finlandia e Danimarca, non hanno registrato variazioni di rilevo nel biennio pandemico.

Per l’insieme dell’Ue27 l’eccesso di mortalità è stato leggermente più elevato tra gli uomini, sia nel 2020 (+6,3% contro +5,0% per le donne) sia nel 2021 (+7,0% contro +6,5%). Lo svantaggio degli uomini è stato osservato anche in Italia ma solo nel 2020, annullandosi nel 2021.

In Italia, nel 2020, l’eccesso di mortalità si è manifestato a partire dalla classe di età 45-59 anni (+2,5%), superando l’11% a partire dai 70 anni. Nel 2021, l’eccesso di mortalità è risultato simile a quello del 2020 nella classe 45-59 anni mentre è diminuito negli altri segmenti di età, soprattutto a partire dagli 80 anni, come accaduto anche in altri paesi che hanno avviato tempestivamente la campagna vaccinale tra gli anziani. 

Durante le fasi più intense di diffusione del virus i tassi di mortalità sono aumentati per tutti i livelli di istruzione in Italia. Tuttavia si è rilevato un incremento, seppur contenuto, delle disuguaglianze di mortalità a svantaggio delle persone con basso titolo di studio.

La mortalità dovuta al Covid-19 ha colpito più duramente gli stranieri nati in aree extra-Ue a forte pressione migratoria (FPM): nei primi due mesi della pandemia i tassi di mortalità risultano più elevati tra gli stranieri rispetto agli italiani, del 20% negli uomini e del 60% nelle donne. A maggio e giugno 2020 la mortalità da Covid-19 si riduce notevolmente, ma il divario tra italiani e stranieri da paesi FPM permane, con una mortalità del 50% più alta tra le donne e del 40% tra gli uomini.

Ad aprile 2022, con l’80,1% di vaccinati con ciclo primario, l’Italia si colloca al terzo posto della graduatoria europea, dopo Portogallo e Malta.

In Italia quasi il 90% degli adulti riconosce l’utilità dei vaccini nel contenere la diffusione della pandemia e li ritiene sicuri, tre su quattro manifestano preoccupazione per la scelta di alcuni di non vaccinarsi, e durante la quarta ondata pandemica più dell’80% si è detto d’accordo con la necessità di mostrare il green pass o l’esito negativo al tampone Covid-19 per viaggiare in aereo/treno, andare al ristorante o in albergo, assistere a spettacoli.

Sulla base dei dati raccolti dall’indagine Eurobarometro, a febbraio 2022 il nostro Paese è al primo posto nel contesto internazionale sia per il giudizio favorevole a una eventuale obbligatorietà delle vaccinazioni (73% contro 56% della media europea) sia per il consenso all’adozione di misure restrittive per l’accesso a luoghi/eventi verso quanti rifiutano di vaccinarsi (82% contro 71%).

Le conseguenze demografiche
La pandemia ha avuto un impatto rilevante su tutte le componenti della dinamica demografica. La perdita di popolazione ascrivibile alla dinamica demografica negativa è stata pari a 658mila residenti tra il 1° gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021, mentre il deficit è risultato doppio rispetto a quello riscontrato nel biennio 2018-2019 (-296mila).

Nel 2020 si è registrata una drastica contrazione dei matrimoni per effetto delle misure di contenimento della diffusione dell’epidemia. In base ai dati provvisori, nel 2021 il numero di matrimoni è raddoppiato e la crescita prosegue nel trimestre gennaio-marzo 2022, ma non è ancora sufficiente a recuperare i livelli del 2019.

Il crollo delle nascite si è protratto nei primi sette mesi del 2021 per poi rallentare verso la fine dell’anno. Secondo i dati provvisori per il primo trimestre 2022, a marzo il calo raggiunge il suo massimo (-11,9% rispetto allo stesso mese del 2021).

Spagna e Italia non hanno ancora recuperato il calo della natalità del 2020. In Francia, dopo la riduzione osservata tra il 2015 e il 2020, nel 2021 le nascite sono state 3mila in più. In Germania, a un calo dei matrimoni nel 2021 è corrisposto un balzo nel numero dei nati, il più alto dal 1997.

L’impatto sulla vita quotidiana
L’emergenza sanitaria ha modificato le abitudini di vita della popolazione. Già nel 2021 sono emersi segnali di un ritorno alla quotidianità pre-Covid, sebbene non tutto sia tornato come prima né sia possibile prevedere se e quando ciò accadrà.

Ad aprile 2020, in un giorno medio del lockdown della prima ondata, poco più di una persona su quattro è uscita per le motivazioni consentite dal decreto “iorestoacasa”. Si è dimezzata la quota di persone che in un giorno medio affermano di aver lavorato e il 44% di questi lo ha fatto da casa. Per il 26% degli occupati il tempo dedicato al lavoro è diminuito, mentre per il 13,7% è cresciuto. Un terzo dei cittadini si è potuto svegliare più tardi e un quinto ha potuto dormire di più. Più di un cittadino su quattro ha dedicato più tempo ai pasti.

La preparazione dei pasti ha coinvolto più di sei persone su 10, diventando spesso un momento conviviale; una persona su tre vi ha dedicato più tempo di prima. Il 40% ha destinato più tempo del solito alle pulizie della casa. Per la chiusura delle scuole, il 67,2% dei genitori con figli fino a 14 anni ha dedicato più tempo alla cura dei bambini che in passato, senza differenze di genere.

In questo stesso periodo, il distanziamento fisico non si è tradotto in distanziamento sociale e i rapporti con parenti e amici sono stati coltivati a distanza. Le attività di tempo libero sono state profondamente influenzate dalle restrizioni che hanno indotto a privilegiare quelle poco condivise e svolte prevalentemente all’interno delle mura domestiche.

Gli stravolgimenti della vita quotidiana conseguenti al lockdown di marzo e aprile 2020 si sono attenuati nei mesi successivi. Gradualmente tende a normalizzarsi la composizione delle 24 ore, con la maggioranza dei cittadini (quote variabili tra il 57 e l’85%) che impegna nelle varie attività la stessa quantità di tempo del periodo pre-pandemico.

È in aumento la quota di cittadini che in un giorno medio effettuano almeno uno spostamento sul territorio: dal 28% del periodo di vigenza del decreto “iorestoacasa”, al 58,3% della seconda ondata fino al 72,9% della quarta. Tuttavia si è ancora lontani dalla percentuale relativa al periodo pre-pandemico (90% circa). Inoltre, ancora una persona su tre (35,9%) si trattiene meno fuori casa mentre il 65% esce più di rado (87,2% nel 2020).

Una progressiva riduzione degli effetti dell’emergenza sanitaria si segnala anche per le attività fisiologiche, ma sono altrettanto evidenti e tuttora in corso i cambiamenti qualitativi. L’isolamento forzato e i cambiamenti nei ritmi di vita hanno avuto effetti sulla qualità del sonno, con una persona su cinque che afferma di svegliarsi più spesso durante la notte.

Si riduce drasticamente la quota di quanti dedicano più tempo di prima ai pasti (7,8% a fronte del 27% della prima ondata), così come è in netto calo la percentuale di chi ha cambiato le proprie abitudini alimentari, in particolare di quanti mangiano di più o consumano più cibi meno salutari. Rispetto ad aprile 2020 si dimezza anche la quota di quanti dedicano più tempo alla pulizia della casa, alla preparazione dei pasti e alla cura dei bambini (0-14 anni).

Al lavoro e allo studio la maggioranza della popolazione adulta dedica lo stesso tempo che in passato. Per il lavoro, scende all’8,6% dal 26% di aprile 2020 la quota di chi vi dedica meno tempo; contestualmente si riduce la quota di lavoratori a distanza.

L’allentamento delle restrizioni ha fatto recuperare gli incontri in presenza: durante la quarta ondata più di un cittadino su quattro ha incontrato familiari non conviventi il giorno precedente l’intervista, altrettanti si sono visti con amici.

L’emergenza sanitaria sembra aver prodotto cambia­menti profondi e duraturi nelle relazioni sociali. Ancora durante la quarta ondata, solo per circa un terzo della popolazione adulta nulla è cambiato nei rapporti con i familiari non conviventi o con gli amici, mentre oltre la metà dichiara di aver ridotto la frequenza degli incontri (rispettivamente 54,9% e 61,8%).

L’abitudine alla lettura di libri ha avuto un andamento positivo nei due anni di pandemia, anche se il profilo prevalente continua a essere quello di “lettore debole”: il 44,6% dei lettori ha letto fino a tre libri nel corso del 2021 mentre solo il 15,2% ne ha letti almeno 12 (“lettori forti”).

La pratica fisico-sportiva ha retto nel periodo pandemico: il 22,7% della popolazione adulta l’ha svolta prevalentemente in casa in un giorno medio di aprile 2020. Tra i più giovani (6-14 anni) è però diminuita la diffusione dello sport continuativo ed è cresciuta la sedentarietà (dal 18,3% del 2019 al 24,4% del 2021).

La fruizione virtuale ha consentito ad alcune attività di tempo libero di reggere all’impatto della pandemia: è proseguito accentuandosi il trend in crescita dell’utilizzo di dispositivi digitali e audiolibri per la lettura. Tra gli utenti regolari di Internet si è inoltre registrato un aumento nell’uso della rete per scaricare e/o leggere libri, quotidiani, riviste, giocare in rete/scaricare giochi, guardare la tv in streaming o video on demand.

La partecipazione ad eventi e spettacoli fuori casa, insieme a tutte le forme di partecipazione culturale e passatempi che non hanno potuto beneficiare di una qualche forma di virtualizzazione, ha registrato tra il 2019 e il 2021 un vero e proprio crollo. La quota di chi ha svolto almeno due attività nell’anno si è ridotta di circa quattro volte (dal 35,1% del 2019 all’8,3% del 2021) mentre si è dimezzata la quota di chi ne ha svolta una (dal 14,3 al 7,2%).

L’impatto sul mercato del lavoro: l’Italia nel contesto europeo

Sul mercato del lavoro la pandemia ha avuto un impatto rilevante sia quantitativo (-724mila occupati rispetto all’anno precedente) sia qualitativo, per l’esacerbarsi delle diseguaglianze a sfavore di segmenti di popolazione vulnerabili già alla vigilia dell’emergenza sanitaria.

Nel 2020 la crisi ha colpito soprattutto le componenti meno tutelate del mercato del lavoro: il 55,5% della caduta occupazionale ha riguardato i lavoratori dipendenti a termine (-402mila rispetto al 2019), e gli indipendenti (-233mila) mentre tra gli occupati a tempo indeterminato il calo non ha superato le 90mila unità.

Nell’Ue27 gli occupati fra i 15 e i 64 anni sono scesi di oltre 3,5 milioni nel 2020 (-1,8% rispetto al 2019). Tra i paesi europei l’Italia ha subito la caduta dell’occupazione maggiore dopo la Grecia
(-5,1%) e la Bulgaria (-3,6%), in linea con Spagna e Irlanda (-3,1%) mentre in Francia la diminuzione su base annua è stata dello 0,5%.

Anche la ripresa osservata nel 2021 in media Ue27 (+1,5%) ha visto il nostro Paese relativamente più penalizzato rispetto alle altre grandi economie dell’area. La fase di incertezza di inizio 2021 ha infatti frenato la risalita dell’occupazione (poi riavviatasi nei mesi successivi), determinando in media d’anno una crescita degli occupati di 15-64 anni intorno allo 0,6% rispetto al 2,8% della Spagna, all’1,6% della Francia e all’1,3% della Germania.

Tali dinamiche hanno determinato un ulteriore ampliamento del divario dell’Italia rispetto alla media Ue27 per i principali indicatori del mercato del lavoro. Il tasso di occupazione dei 15-64enni, già inferiore di 9,1 punti percentuali nel 2019 nonostante i progressi registrati dal 2014, si è attestato al 58,2%, circa 10,2 punti percentuali in meno della media europea.

Il costo pagato dalle donne è stato più elevato in Italia che nel resto d’Europa. Le occupate sono diminuite di circa 376mila unità nel 2020 (-3,8% rispetto al 2019), a fronte di un impatto di genere mediamente più omogeneo nelle principali economie dell’Ue27. Nel 2021, nonostante una ripresa più favorevole per le donne, il tasso di occupazione femminile non ha ancora recuperato, in media d’anno, i livelli del 2019, rimanendo sotto la soglia del 50% (49,4%).

L’altro segmento particolarmente colpito dalla pandemia è stato quello dei giovani: nella media Ue27 si è registrato un calo di occupati sotto i 25 anni quasi tre volte superiore rispetto ai 25-54enni (-6,1% contro -2,3%), con Italia e Spagna che si distinguono per le perdite più marcate (-9,6% e -14,9%).

Nel 2021, la ripresa dell’occupazione giovanile ha riguardato anche l’Italia, pur con un’intensità inferiore (+5,5%) rispetto a Francia (+12,5%) e Spagna (+12,6%). Il tasso di occupazione dei
15-24enni – già il più basso fra le principali economie dell’Ue27 – è cresciuto in Italia di solo 0,9 punti percentuali (+3,3 punti in Francia), rimanendo ancora circa un punto sotto il valore del 2019.

Anche nel biennio 2020-21 si conferma il ruolo protettivo svolto da un più alto livello di istruzione. In Italia, nel 2020, il tasso di occupazione dei laureati (81,7%) si è ridotto meno della metà (-0,7 punti) rispetto a chi ha un diploma secondario superiore (-1,8 p.p.) o la licenza media (-1,5 p.p.). Ancora più netti appaiono i vantaggi nel 2021: in media d’anno la quota di occupati laureati 15-64enni è cresciuta di 1,4 punti percentuali sul 2020 (da 81,7% a 83,1%), a fronte di un incremento di un solo decimo di punto (da 73,0 a 73,1%) per i diplomati.

I benefici occupazionali di un titolo di studio più elevato sono particolarmente evidenti tra le donne, per le quali nel 2021 essere in possesso di una laurea si associa a un tasso di occupazione al 76,4%, 22 punti percentuali più alto di quello delle diplomate. Fra gli uomini il vantaggio corrispondente è di circa 10 punti (83,1% contro 73,1%).

I vantaggi occupazionali dell’accumulazione del capitale umano trovano conferma anche per i segmenti di popolazione più giovane. Nel 2021, in Italia, il tasso di occupazione dei 30-34enni con titolo di studio terziario è all’81,1%, rispetto al 68,4% dei diplomati e al 53,5% di chi non è andato oltre la licenza media. Anche in questo caso il premio più elevato riguarda le giovani laureate che risultano occupate nel 78,3% dei casi, contro il 53,7% delle coetanee con diploma secondario superiore.

Nell’Ue27 l’Italia mantiene un divario importante anche con riferimento alla possibilità di lavorare da remoto. La quota di occupati di 15-64 anni che affermano di aver svolto il proprio lavoro occasionalmente o abitualmente da casa è cresciuta dal 4,7% del 2019 al 13,6% del 2020. Ciononostante l’Italia resta sotto la media europea (20,6%).

Nel 2020 in Italia la quota di occupati che hanno lavorato da casa solo occasionalmente è rimasta molto bassa (da 1,1% a 1,4%). Questa componente è invece molto rilevante nella media dell’Ue27 (8,6%). Nel 2021, tuttavia, nel nostro Paese la ripresa delle attività economiche si è associata a un ridimensionamento del lavoro agile abituale e all’incremento di quello di natura meno frequente.

Lavorare da casa ha comunque comportato alcune difficoltà, riportate da più di un lavoratore su due (54,2%). In particolare, più di un lavoratore su quattro ha lamentato problemi di connessione a Internet e difficoltà di concentrazione, il 23,2% carenze di dotazione tecnologica, il 21,3% scarsità di spazi adeguati in casa e il 23,4% problemi di sovrapposizione tra lavoro e attività personali/familiari.

Lavorare due o tre giorni a settimana da casa rappresenta il modello ibrido ideale per gli interessati a questa forma di flessibilità lavorativa, sia per chi ne ha già avuto esperienza sia per chi desidererebbe farla (69,5%); il 16,6% preferirebbe un utilizzo più sporadico mentre il 13,8% manifesta interesse per un modello più spinto (tutti i giorni o quasi).

Il sistema delle imprese

La crisi associata alla pandemia è stata molto profonda ma concentrata in alcuni settori di attività e circoscritta nel tempo. A maggio e novembre 2020 oltre il 30% delle imprese percepiva il rischio di chiusura nel breve termine ma già a novembre 2021 questa quota si è ridotta al 3,4%.

A fine 2021 paventa il rischio chiusura il 12% delle imprese dei servizi ricreativi (es. cinema, teatri, discoteche). In questo comparto e nelle attività di alloggio e ristorazione la quota sale al 30%, se si includono le imprese che percepiscono solo parzialmente tale rischio.

L’impatto della crisi ha penalizzato di più le imprese di dimensione minore: oltre il 30% di quelle con 3-9 addetti ha ridotto la propria capacità produttiva rispetto al 2019, solo il 6,5% l’ha aumentata (e appena il 2% nei servizi ricreativi). Tra le imprese più grandi (50 addetti e più), meno del 15% ha perso capacità produttiva mentre oltre il 22% l’ha accresciuta.

Gli interventi pubblici di sostegno hanno permesso a oltre il 40% delle imprese di ricorrere a finanziamenti garantiti dallo Stato nella prima fase della crisi, possibilità che alla fine dello scorso anno circa il 20% delle imprese ritiene molto rilevante per il proseguimento dell’attività.

Un effetto positivo dell’emergenza sanitaria – in Italia e negli altri paesi avanzati – è stata l’accelerazione nell’utilizzo delle tecnologie digitali. Le tre aree di digitalizzazione più influenzate dalla pandemia sono state quelle del lavoro da remoto (o agile), del commercio elettronico e della digitalizzazione dei processi aziendali, inclusa l’automazione.

Nel gennaio 2020, in media, lavorava da remoto circa il 3,7% del personale delle imprese con almeno tre addetti; tale incidenza è salita al 19,8% nel bimestre marzo-aprile 2020 per giungere, a fine 2021, a un livello di diffusione medio più che doppio. In particolare sono state le grandi imprese (almeno 250 addetti) del Nord-ovest a utilizzare più intensivamente questa modalità nel settore privato.

Tra le imprese che nel periodo giugno-ottobre 2021 hanno mantenuto una quota di personale in lavoro da remoto, i giudizi negativi superano quelli positivi per l’efficienza e la collaborazione interna, mentre i saldi dei giudizi sono moderatamente positivi per la produttività e più favorevoli sui costi operativi e sul benessere del personale.

Inoltre, l’esperienza del lavoro da remoto sembra aver rappresentato uno stimolo importante per altri cambiamenti, quali gli investimenti in tecnologie e formazione. Anche in questo caso, la capacità di coglierne le opportunità è stata più diffusa tra le imprese più grandi.

Durante la crisi è accelerata l’adozione delle tecnologie per la gestione dei flussi informativi d’azienda e l’automazione dei processi (“tecnologie 4.0”). Ne deriva una possibile convergenza tra settori nei quali le imprese avevano già investito significativamente in tecnologie 4.0 nel periodo pre-Covid e settori nei quali sono stati realizzati investimenti digitali rilevanti a seguito della crisi, con una diffusione sostanziale anche tra le imprese di minore dimensione.

Gli indicatori qualitativi segnalano un ampliamento significativo del segmento di imprese che attribuiscono valore strategico agli investimenti immateriali in capitale umano e ricerca e sviluppo, all’internazionalizzazione, alla sostenibilità ambientale. Le intenzioni di investimento in questi ambiti per il primo semestre 2022 sono superiori non solo a quanto registrato nelle due precedenti rilevazioni, ma anche al livello del triennio 2016-2018.

La capacità delle imprese di adattarsi ai cambiamenti intercorsi è in larga misura spiegata da elementi di dinamismo pre-esistenti l’emergenza sanitaria, coadiuvati da aspetti di struttura quali la dotazione di capitale umano, la dimensione d’impresa e il settore d’attività.

Distinguendo le imprese in base alla capacità di attuare strategie di reazione alla crisi (imprese “proattive”), a parità di altre caratteristiche le unità appartenenti ai gruppi mediamente o molto proattivi presentano una probabilità relativamente più elevata di arrivare all’uscita della crisi solide e dotate di una capacità produttiva superiore al 2019.

Le scelte strategiche adottate dalle imprese nel periodo di crescita 2016-2018 hanno influito positivamente sulle scelte comportamentali attuate nel corso della crisi e nella fase di uscita.   

Le donne, i giovani sotto i 35 anni e i residenti stranieri sono ampiamente sotto-rappresentati nella conduzione delle imprese con almeno 3 addetti, a confronto con il loro ruolo nel funzionamento delle stesse imprese. Nel 2019 le donne dirigevano meno del 23% delle imprese pur essendo il 37,9% degli addetti; gli stranieri il 5,9% col 12,9%, e i giovani il 7,8%, con una quota di ben il 27,8% tra gli addetti.

Donne, giovani e stranieri sono relativamente più presenti nella conduzione delle imprese più piccole e nei settori dei servizi maggiormente colpiti dalla crisi: tra le imprese con 3-9 addetti quelle attive nei servizi di alloggio e ristorazione, amministrativi, ricreativi e alle famiglie sono il 26,5% ma il 38,6% tra quelle a conduzione femminile e il 45,7% se dirette da giovani. I comportamenti (proattività, scelte strategiche precedenti) e aspetti strutturali quali il livello di istruzione sono stati rilevanti nel determinare la tenuta e lo sviluppo delle micro-imprese in questi gruppi, più che per le altre.



08 luglio 2022
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