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Dalla pandemia Covid-19 nuovi modelli di assistenza, di appropriatezza e di accreditamento

di Giorgio Banchieri e Andrea Vannucci

Dobbiamo ridare centralità e strumenti adeguati ai servizi di Prevenzione, alle cure primarie e intermedie, alle esperienze migliori di cure integrate e di reti con gli ospedali. Dobbiamo ricordare il valore di avere un servizio sanitario universale, avere cura della sua integrità e della sua reputazione. Avere a cuore il benessere e la crescita di tutti coloro che ci lavorano che vanno considerati “un bene comune”

16 APR - Prima dell’inizio della pandemia si parlava molto di “integrazione sociosanitaria” o di “integrazione tra ospedali e territorio”, lo tsumami Covid-19, almeno nella sua fase più drammatica di ascesa del numero di casi, ha riportato improvvisamente tutta l’attenzione sugli ospedali, sul numero dei posti letto disponibili e in particolare di quelli di terapia intensiva, ultimo presidio di salvaguardia dei pazienti colpiti dal virus.
 
Dopo le prime settimane si è però incominciato a riflettere sulle prime esperienze di cura di Covid-19, sia in ambito ospedaliero che in ambito territoriale/domiciliare. I paesi che meglio hanno contenuto la pandemia, almeno per ora, quali Corea del Sud, Taiwan e Nuova Zelanda, lo hanno fatto con un’ampia attività di prevenzione, con un sistemico tracciamento dei pazienti asintomatici, con la massiccia somministrazione dei tamponi e/o test sierologici su target specifici di popolazione, con il rigoroso autoisolamento dei pazienti sintomatici nella fase iniziale della malattia evitando i ricoveri in ospedale e con l’attuazione tutte le misure possibili di lockdown.
 
Dove inizialmente Covid-19 è stata sottovalutata non ci sono state procedure definite e tempestive per circoscrivere il contagio, i pazienti sono stati trasportati, o si sono spontaneamente presentati, negli ospedali dove non erano state ancora organizzate aree protette. Lì la pandemia si è sviluppata in modo grave, vedi in Italia l’esperienza drammatica della Lombardia.
 
Gli stessi medici lombardi con una lettera aperta hanno denunciato tra gli errori commessi i seguenti:
“1) La mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia dovuta alla decisione di eseguire i tamponi solo ai pazienti ricoverati e alla diagnosi di morte attribuita solo ai deceduti in ospedale;
 
2) L’incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio;
 
3) La gestione confusa della realtà delle RSA e dei centri diurni per anziani;
 
4) La mancata fornitura di protezioni individuali ai medici del territorio e al restante personale sanitario;
 
5) La pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica (isolamenti dei contatti, tamponi sul territorio a malati e contatti);
 
6) La mancata esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari del territorio e in alcune realtà delle strutture ospedaliere pubbliche e private, con ulteriore rischio di diffusione del contagio;
 
7) Il mancato governo del territorio ha determinato la saturazione dei posti letto ospedalieri con la necessità di trattenere sul territorio pazienti che, in altre circostanze, avrebbero dovuto essere messi in sicurezza mediante ricovero”.
 
Criticità successivamente esposte anche in un documento di APRIRE Network “Prevenzione e gestione nelle Residenze Sociosanitarie per Anziani” e in quello del Politecnico di Milano “Un’emergenza nell’emergenza, Cosa è accaduto alle Case di Riposo del nostro Paese”
 
Se è presumibile che la pandemia non si risolverà in una unica ondata, ma in due o tre come in passato altre pandemie, come fece la “Febbre Spagnola” nel 1918 che ebbe tre cicli di cui il secondo fu quello più devastante, dobbiamo prepararci ad una convivenza dinamica con essa.  Abbiamo già compreso l’esigenza di disporre di strutture dedicate e specializzate da non “mischiare” con gli ospedali “generalisti”, ma non basta. Occorre ripensare anche la consistenza e l’organizzazione delle reti di cure primarie e di prossimità, le strutture intermedie e l’assistenza domiciliare.
 
Come ogni pandemia l’impatto sulla popolazione richiede diversi livelli di risposta:
 
- Bassa Complessità Assistenziale: per i pazienti asintomatici dopo la loro individuazione tramite tamponi, esami sierologici o altro e tramite la tracciabilità dei loro spostamenti e contatti prima della verifica della loro positività (risposta dei Servizi di Prevenzione delle ASL, dei MMG e degli specialisti territoriali)
 
- Media Complessità Assistenziale: per i pazienti sintomatici precoci e non gravi da gestire in strutture di quarantena con vigilanza sanitaria e/o a domicilio con segregazione volontaria, ma assistita e/o risposta delle UDI dedicate, di strutture residenziali assistite specialistiche dedicate, di domiciliarità volontaria (risposta dei Servizi di Prevenzione delle ASL, dei MMG, delle UDI e dei CAD/ADI dedicati);
 
- Alta Complessità Assistenziale: per i pazienti sintomatici gravi, spesso i soggetti più fragili per la presenza di una o più malattie, che hanno necessità di ricovero in ospedale e, in alcuni casi, di cure intensive (risposta dei Servizi Ospedalieri, in particolare unità di cura semintensive o di rianimazioni)
 
Quindi una gerarchia di livelli di risposta che coinvolgono tutte le macro aree delle ASL – prevenzione, territorio, ospedali - e la rete con le Aziende Ospedaliere, in una ottica di filiera assistenziale integrata e dedicata. Questo anche perché dovremo quanto prima ridedicarci a coloro che con questa emergenza abbiamo lasciato in secondo piano: gli ammalati di “altro”: quelli con malattie croniche come, ad esempio, i cardiopatici, i diabetici, gli oncologici, i disturbi mentali, ma anche gli oncologici e tutti coloro che erano e sono rimasti in attesa di essere sottoposti ad interventi chirurgici non urgenti. Siamo stati costretti a ridurre momentaneamente i servizi e i posti letto per i bisogni di queste persone.  Posti Letto e servizi che per altro non erano esuberanti, ma già con una disponibilità molto “efficentata”. In tanti ci stiamo domandando quante morti “indotte” abbiamo avuto in corso di pandemia perversante?
 
Quanto sopra impone una riflessione attenta, una conferma o un intervento pronti ed efficaci su:
 
- Centralità di un Servizio Sanitario Nazionale universale ed equo;
- Conoscenza dei bisogni reali delle popolazioni in divenire e loro dimensionamento per peso e volumi;
- Ridefinizione dei modelli regolativi degli ospedali che ancora sono quelli della Legge Mariotti del 1968 anche se successivamente modificata e implementata dal Decreto 70;
- Sviluppo delle strutture intermedie sia specialistiche che generaliste in una ottica di filiere assistenziali pubblico/privato con una modellizzazione uniforme tipo quella individuata con il Tavolo Re.Se.T Ministero/AGENAS/Regioni;
- Riorganizzazione dei servizi delle cure primarie, loro potenziamento e integrazione con quelli territoriali della ASL, rafforzamento dei Distretti e loro connotazione come Agenzie di tutela della popolazione dei territori;
- Riorganizzazione dei Corsi di Laurea di Medicina e di specialità, di Scienze Infermieristiche e delle altre professioni sanitarie con migliori approfondimenti ed esperienze  di sanità pubblica e di intervento sociosanitario e con tempo di apprendimento dedicatoa sviluppare nozioni adeguate su cosa significa il lavoro in equipe, la gestione dei gruppi e dei conflitti, in cosa consiste la leadership, come si coltivano  l’empowerment, le relazioni empatiche tra operatori/pazienti, come si curano aspetti cruciali quali  informazione e comunicazione all’interno delle organizzazioni e con gli stakeholder;
- Creazione di flussi informativi adeguati uniformi a livello nazionale cogestiti con le Regioni, ma con una cabina di regia unica che garantisca il coordinamento degli interventi in caso di pandemie tramite anche la definizione di Linee Guida e Procedure dedicate come per le maxi emergenze.
 
Il tutto deve convergere verso modelli condivisi di “governance” clinica nazionali e uniformi, con il supporto di una programmazione dei supporti e dispositivi necessari (respiratori, PPI, etc) da stoccare in quantità adeguate e riportandone la produzione all’interno del Paese come produzioni strategiche da tutelare.
 
A questo punto si impone una riflessione su temi connessi, ovvero, l’”appropriatezza” delle cure e l’”accreditamento” delle strutture sanitarie e sociosanitarie “terze” rispetto a quelle del sistema pubblico.
 
In un contesto emergenziale il termine “appropriatezza” comporta alcune specificazioni:
 
- come possono essere appropriate cure senza presidi farmacologici specifici e dedicati (vaccini) o altrimenti come si possono usare con livelli adeguati di cure “evidence based” quando l’utilità la si verifica empiricamente nell’epidemia in essere?
- come si possono definire percorsi dedicati, procedure assistenziali e, al limite, PDTA specifici, come si possono pensare e formalizzare modelli di “percorsi dedicati” o “strutture dedicate” per pazienti Covid 19 con le conoscenze attualmente disponibili e come aggiornarli progressivamente con il consolidamento delle esperienze?
- con quali flussi informativi si possono seguire gli sviluppi della pandemia sia a livello nazionale e regionale, che a livello locale con matrici di indicatori e standard condivisi?
 
Quali competenze tecniche, professionali e relazionali devono acquisire gli operatori che sono chiamati a operare sui pazienti Covid-19?
 
Oggi siamo stati presi in contropiede dal virus, ma domani non potremmo giustificare ritardi e assenze di strumenti organizzativi e professionali adeguati.
 
Circa l’”accreditamento” dobbiamo invece fare un altro tipo di considerazioni.
Già prima della pandemia nelle filiere assistenziali sociosanitarie e sociali la presenza pubblica era minoritaria.
Con i tagli finanziari alla sanità, nella logica dei pareggi di bilancio, la maggioranza dei servizi semiresidenziali e residenziali e di ADI sono in quasi tutte le ASL affidati in “outsourcing” o svolti da organizzazioni (società o cooperative) del privato sociale o private.
 
Questo non sempre ha garantito un’adeguata qualità dei servizi per due motivi:
 
- I tagli ai bilanci delle ASL hanno portato ad una riduzione degli organici dei servizi di ispezione, controllo e auditing e pertanto della capacità di monitoraggio della qualità dei requisiti organizzativi, professionali e assistenziali che i “terzi fornitori” s’impegnavano per contratto a garantire nel tempo. E ‘accaduto in più di un’occasione che tali garanzie si siano ridotte come conseguenza del fatto che i fornitori di servizi riducevano nel tempo la qualità delle prestazioni in base a loro logiche interne d’efficienza o di margini di profitto;
 
- Le ASL, pur avendo dovuto bandire di nuovo tutte le gare di affidamento di servizi a terzi, come da Circolare ANAC, spesso avevano reiterato vecchi capitolati di gara senza farne un’opportunità per adeguarne i criteri tecnici in base sia alla evoluzione delle cure che delle prassi assistenziali.
 
Di conseguenza il livello di adeguatezza ai criteri di accreditamento era, ed è, mediamente basso. I contenuti assistenziali erogati si limitano a quelli di bassa e media complessità assistenziale e spesso sono anche inappropriati. In più occasioni non si trova l’aderenza ai criteri di accreditamento delle variegate Leggi Regionali, che ancora troppo spesso permangono in uno stato, che possiamo definire “cronico”, di recepimento del nuovo “Disciplinare per l’accreditamento delle strutture sanitarie”, emanato dal Ministero dopo un lungo lavoro coordinato da AGENAS e Regioni.
 
La strage di anziani nelle RSA e nelle case di Riposo si spiega purtroppo nella sottovalutazione del rischio di mischiare pazienti Covid-19 e soggetti fragili, cronici e policronici, vittime inevitabili di facili contagi, ma anche nella assenza di Linee Guida e procedure dedicate.
 
Che in molte di queste strutture la garanzia sanitaria sia più formale che sostanziale e che gli operatori non sempre siano qualificati in modo adeguato è un’evenienza possibile e ciò diventa evidente quando si presentano situazioni estreme. Questo stato delle cose, insieme ad un uso inappropriato delle strutture, spiega i dati terribili di decessi che abbiamo registrato in questi giorni.
 
Se la sanità pubblica non recupera, non tanto una gestione diretta, non è questo il punto, ma una buona capacità di governance, che significa anche efficacia delle azioni di monitoraggio e verifica dei servizi erogati da “terzi fornitori” in qualsiasi altro ciclo di pandemia rischiamo di non portare a frutto quello che abbiamo imparato a caro prezzo da gennaio ad oggi.
 
Se non avessimo una sanità pubblica ci saremmo trovati peggio degli USA, dove la pandemia fa strage di fragili, cronici, minoranze razziali e “non assistiti” nemmeno dai programmi pubblici di assistenza Medicare e Familicare. In USA sono 80 milioni gli invisibili della sanità che sono destinati ad esiti che forse resteranno invisibili.
 
Per non dover subire ulteriori stragi dobbiamo ridare centralità e strumenti adeguati ai servizi di Prevenzione, alle cure primarie e intermedie, alle esperienze migliori di cure integrate e di reti con gli ospedali. Dobbiamo ricordare il valore di avere un servizio sanitario universale, avere cura della sua integrità e della sua reputazione. Avere a cuore il benessere e la crescita di tutti coloro che ci lavorano che vanno considerati “un bene comune”.
 
 
 
 
 
Giorgio Banchieri 
Segretario Nazionale ASIQUAS, Associazione Italiana per la Qualità dell’Assistenza Sanitaria e Sociale, Docente DiSSE Università “Sapienza” e LUISS Business School di Roma.
 
Andrea Vannucci
Membro Accademia Italiana di Medicina

16 aprile 2020
© Riproduzione riservata


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