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Benato (Fnomceo): “Possono bastare meno medici, ma capaci di dirigere un team”


Centomila medici in meno da qui al 2034, mentre gli odontoiatri potrebbero essere la metà entro 15 anni. Ma cambiando i modelli organizzativi in una prospettiva multidisciplinare il sistema può reggere. E intanto la “gobba” pensionistica si sdoppia

11 DIC - Da tempo Maurizio Benato, vicepresidente Fnomceo e presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Padova, studia le trasformazioni in atto nella professione medica, intrecciando i dati quantitativi con riflessioni specifiche, come nel Convegno organizzato recentemente a Padova e dedicato ai cambiamenti provocati nel mondo medico dall’avvento degli strumenti informatici (“Cybermedicina”, 28-29 settembre 2012).
 
Ed è per questo che abbiamo chiesto proprio a lui un commento sugli elementi più eclatanti che emergono dall’analisi dei dati che danno una fotografia dell’universo medico e odontoiatrico oggi in Italia: flessione numerica della professione; crescente presenza di donne, sostanziale staticità nella programmazione.
 
Per Maurizio Benato siamo di fronte ad un cambiamento di prospettiva: si può pensare ad un sistema con meno medici, ma solo a fronte di una profonda revisione dei modelli organizzativi, in modi che siano capaci di tener conto della femminilizzazione della professione medica, del crescente ruolo delle professioni sanitarie, della crescente richiesta di assistenza sul territorio.
Una sfida difficile, per un mondo medico che intanto deve fare i conti con la “gobba” pensionistica. Anzi, con una doppia gobba, perché il dromedario è diventato un cammello.
 
Presidente Benato, i dati confermano la progressiva flessione del numero dei professionisti attivi in Italia che in prospettiva, considerando anche i tempi lunghi di formazione di un medico, è ancora più netta, con ricadute in ambito professionale e sotto il profilo dell’assistenza. Come commenta questo dato e che cosa pensa di fare la Federazione in merito?
In primo luogo dobbiamo inserirlo in un contesto organizzativo sanitario che sta cambiando, in cui assistiamo alla crescente professionalizzazione delle cosiddette professioni sanitarie non mediche. Questo elemento deve inserirsi nella filiera della cura e quindi alcune competenze che appartenevano al medico, ovvero erano state acquisite dal medico in un periodo in cui c’era una pletora medica, possono essere sicuramente delegate alla professioni sanitarie.
Ma soprattutto, anche nell’ambito organizzativo, dobbiamo partire dalla centralità del cittadino e non più dalla centralità della professione medica. E la centralità del cittadino richiede che ci sia un integrazione di diverse professionalità nel dare assistenza. Per questo la professione medica deve sempre di più essere in grado di amalgamare un team multiprofessionale, capace di dare risposte coerenti con la domanda della salute. Questo significa che non abbiamo bisogno dello stesso numero di medici che abbiamo avuto sin ora, ma abbiamo bisogno di medici più preparati e qualificati, che possano lavorare in una condizione di multidisciplinarietà o interdisplinarietà, interagendo con le altre professioni in un progetto sanitario unitario.
 
In sostanza, lei dice che la diminuzione del numero dei medici nei prossimi anni (che secondo le previsioni potrebbero ridursi di 100mila unità da qui al 2034) non produrrà difficoltà?
Questo è il concetto di fondo: da un punto di vista pratico noi sicuramente non abbiamo bisogno di più medici di quanti ce ne sono attualmente, ed anzi è anche possibile prosciugare nel tempo la quantità di medici.
 
Questo vale per tutte le specialità?
Per leggere i dati che riguardano le specialità bisogna tener conto del fatto che non tutti i professionisti indicano la propria specialità nell’iscrizione all’Ordine e anche che nei nostri elenchi compaiono specialisti o plurispecialisti anche degli anni passati, quando le specialità venivano acquisite non secondo le modalità europee, e quindi di fatto c’è una discrepanza tra specialisti che esercitano e specialisti “con titolo”
 
Secondo il suo ragionamento sulle equipe multiprofessionali i  medici dovranno avere sempre più capacità manageriali, che però ancora oggi sono quasi del tutto assenti nel loro percorso formativo, improntato piuttosto alla preparazione di un professionista “solitario”.
Occorrerà certamente introdurre dei cambiamenti. La moderna medicina parla di multidisciplinarietà, interdisciplinarietà  e transdisciplinarietà, tre concetti che sembrerebbero identici ma che invece contengono importanti sfumature di significato. La multidisciplinarietà prevede un equipe, ma nella quale  ciascuno vede le cose dall’ambito della propria disciplina; nella prospettiva di interdisciplinarietà le discipline interagiscono invece maggiormente una con l’altra; infine la transdisciplinarietà è un concetto molto più avanzato per cui tutti hanno lo stesso obiettivo, in questo caso la centralità del paziente, e quindi tutti devono concorrere a rispondere alla domanda di tutela, il che significa che queste professioni sanitarie possono superare gli steccati che attualmente le vedono separate. La transdiciplinarietà applicata alla medicina è, in un certo senso, un concetto olistico nell’ambito organizzativo.
 
Come risponde l’Università a questi cambiamenti, qualitativi e quantitativi? L’impressione è che tutto resti uguale.
In effetti, ci sono sempre 5mila contratti accademici di specializzazione all’anno, a fronte dei circa 8mila posti indicati come fabbisogno dalle Regioni. A questi si aggiungono altri 800 posti circa, in realtà private o regionali. E a questi occorre aggiungere gli altri 800-1.000 delle scuole regionali per la medicina generale.
 
Ma il fabbisogno indicato dalle Regioni è elaborato su un’analisi di prospettiva o mira semplicemente a perpetuare la situazione esistente?
La definizione del fabbisogno mira a bilanciare le uscite previste per anzianità e pensionamento, senza ipotizzare cambiamenti nell’attuale organizzazione dei servizi.
 
Tra gli elementi di cambiamento più evidenti della professione medica c’è la sua crescente “femminilizzazione”, tanto che ormai da una decina di anni a questa parte si laureano in Medicina più donne che uomini. Lei stesso, in un intervento di qualche mese fa sottolineava come questo ponesse la necessità di rivedere, in questa chiave, l’organizzazione sanitaria e anche i rapporti di lavoro, contratti e convenzioni. Cosa pensa che si potrebbe fare?
I contratti e le convenzioni sono stati scritti in una logica “neutrale”, che naturalmente è invece una logica maschile, ma il cambiamento di genere richiede una rimodulazione dell’organizzazione. I contratti hanno alla base l’idea di una  professione totalizzante, mentre oggi è urgente rivedere l’organizzazione del lavoro in una prospettiva diversa che tenga conto della presenza delle donne, dello sviluppo della sanità territoriale, della crescita delle professioni sanitarie. Le donne devono conciliare molte cose e la loro presenza richiede un’organizzazione differente. Ecco che allora la stesura delle convenzioni e dei contratti deve tener conto di queste esigenze. 
Mi fa un esempio concreto?
È evidente che il tempo pieno cozza con le esigenze dei tempi di vita, così come cozzano l’attuale visione delle carriere o l’attuale visione organizzativa nelle chirurgie. Penso soprattutto a quelle realtà in cui i tempi di lavoro sono non determinati: da una parte occorre rafforzare l’organizzazione di contorno o di contesto, come gli asili nido, ma dall’altra si deve anche pensare a come organizzare, per esempio, un servizio di anestesiologia in cui una donna, lasciando il servizio,  possa passare le consegne ad un’altra.
 
Si può pensare a delle sovrapposizioni di ruolo? E poi anche a come costruire le carriere tenendo conto di questo?
Certamente. Per esempio bisogna pensare a come consentire il rientro nella professione, dopo congedi parentali o di maternità,  recuperando a pieno la professionalità, specie nei settori,come l’anestesia o la chirurgia, che richiedono un particolare training. E questo vuol dire che forse,per avere una professionalità pienamente operativa abbiamo bisogno che ci siano nei fatti due persone.
 
Un’ipotesi difficile di questi tempi, con i contratti bloccati e i tagli alle risorse economiche.
Non c’è dubbio.
 
Vorrei chiederle qualcosa riguardo agli odontoiatri, visto che la Federazione rappresenta tutti. In questo settore mi sembra che non ci sia un forte calo di presenze, forse perché essendo in gran parte liberi professionisti mantengono una forte attrattività.
Le cose non stanno esattamente così. Attualmente gli odontoiatri sono per due terzi di formazione medica e per un terzo di formazione odontoiatrica. I numeri della formazione odontoiatrica sono costanti, ma coloro che vengono dalla formazione medica, ovvero che si sono laureati prima dell’85, tra una quindicina d’anni usciranno dalla professione, il che vuol dire che la professione odontoiatrica nel complesso potrebbe all’incirca dimezzasi quantitativamente. Credo che ne siano ben consapevoli, ma d’altra parte questo li avvicinerebbe allo standard europeo, che è di circa uno a duemila, ovvero un odontoiatra ogni duemila abitanti,mentre oggi in Italia il rapporto è di circa uno a mille.
 
Questi cambiamenti nel numero dei professionisti medici e odontoiatri in attività ha creato qualche allarme anche in vista della cosiddetta “gobba pensionistica”, ovvero di un forte aumento del numero dei professionisti in pensione. Secondo lei qual è la situazione?
Oggi stanno andando in pensione i nati tra il 1947 e il 1950, più qualcuno del ‘51 e del ’52. Nel complesso circa 7-8 mila persone.
 
Quindi la gobba è già arrivata?
Sì, invece che un dromedario si sta presentando un cammello. C’è un picco ora, dovuto anche all’allarme e all’incertezza, poi ci sarà una fase di stasi e poi dovrebbe arrivare un altro picco alla fine del decennio.   
 
Insomma, adesso c’è una prima ondata di pensionamenti dovuti alla paura dei possibili cambiamenti delle regole previdenziali?
Esattamente. Ma oltre a questo c’è anche da tener presente che si sta preparando un grande rivolgimento organizzativo. E alcuni, della mia classe d’età,  hanno qualche difficoltà nell’affrontare il nuovo, come sempre succede. Siamo stati formati all’autonomia, ora è difficile entrare in una prospettiva interprofessionale, che cambia profondamente il rapporto con il paziente.

11 dicembre 2012
© Riproduzione riservata

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