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Un nuovo infermiere? Non diamo tutto per scontato

di Marcella Gostinelli

11 GIU - Gentile Direttore,
ho letto il contributo di Saverio Proia “Medici, ordini e professioni sanitarie: ecco a che punto siamo con le riforme” e poi anche quello del Presidente del Collegio Ipasvi di Firenze Danilo Massai, “Un nuovo medico ,un nuovo infermiere” e vorrei dire quello che penso nel merito. Nelle prime righe Proia dice” …”quindi una sanità plurale nella quale non vi è una centralità esclusiva di una professione ed un ruolo ancillare di un’altra, bensi l’interdipendenza funzionale di una dall’altra e viceversa”.
 
No, Dott. Proia,  cosi non è , cosi è nella carta , nel suo documento, ma non nella realtà. Capisco, però, le sue buone intenzioni e capisco anche che per lei  e non solo,  sia meglio credere che vi sia interdipendenza fra le diverse professioni sanitarie, in quanto ciò  semplifica  molto il suo lavoro,  dando per risolte questioni che invece sono in ballo. Il Ministero e le Regioni, tuttavia, non hanno bene interpretato questo fenomeno forse perché hanno attivato, come lei scrive,  il confronto e la partecipazione delle rappresentanze professionali, scientifiche e sindacali delle professioni sanitarie interessate, se invece avessero  sentito i professionisti infermieri e suppongo anche medici, questo errore interpretativo non lo avrebbero fatto.
Gli infermieri per esempio vi avrebbero detto che le funzioni da loro svolte non sono in relazione con quelle del medico e viceversa e  che per essere davvero  interdipendenti è necessario che la professione infermieristica ed anche quella medica   risolvano  prima alcune vecchie questioni interne, ma non solo e  mi spiego meglio.  
 
Il decreto ministeriale 739 del ‘94 e la  legge  42/99 hanno  introdotto un importante cambiamento, quello del passaggio di responsabilità dell’ assistenza dal medico all’infermiere   e la definizione di un ruolo diverso di infermiere rispetto al ruolo di medico. Purtroppo però , per tutta una serie di motivi conosciuti alla gran  parte degli infermieri,  nella maggior parte dei casi, nella  pratica quotidiana, non è cambiato nulla. Il decreto e la legge sopra citati  sono stati accolti  da tutti noi infermieri come un grande segno riformatore e quindi con grande plauso dagli stessi. Sono trascorsi, però, rispettivamente 19 e 14 anni da allora con conseguenze che hanno portato ad un cambio  costitutivo di responsabilità, la nascita di nuove forme di direzione e di coordinamento, un nuovo ordinamento didattico, ma la riforma avviata dalla norma  non è riuscita a dare una  qualche forma di potere, di titolarità  e di specificità alla massa di infermieri  di linea.
 
Questo, a sua volta, ha fatto si che gli infermieri, per avere un po’ di  titolarità prediligano  le tecniche, l’area critica, l’instabilità clinica   e quindi gli aspetti clinici  e meno quelli assistenziali, pertanto, come dice Cavicchi (Medicina e sanità: snodi cruciali, ed Dedalo, 2010 , pag182)  “se prevalgono le tecniche nella professione, quella dell’infermiere, più che essere una professione intellettuale  diventerebbe una professione tecnica (….) “ridurre il nursing a tecniche secondo me non è un grande affare per nessuno”. Agire una tecnica per un infermiere significa, infatti , agire per uno scopo che è esterno a chi opera, significa dipendere da una prescrizione medica, avere  una discrezionalità limitata ed essere subordinati ad una decisione di altri. Quale autonomia?  Altra cosa è, per l’infermiere  utilizzare anche  una razionalità che permetta di avere una certa autonomia intellettuale  e che gli permetta di usare diversi saperi oltre quello tecnico scientifico. In tutti questi anni , l’Infermiere, pur essendo cambiato molto,  non è riuscito ad impostare una forma relazionale diversa con il malato, garantendogli  per esempio  un’assistenza descritta  dai suoi bisogni attuali  e non da funzioni predefinite  e generiche prese a prestito da funzioni più generali  del servizio sanitario.Un malato nuovo al quale l’infermiere riconosce la capacità di relazionarsi , di interpretare, di scegliere  e decidere, portatore non solo di una patologia oggettiva, ma anche di una complessità sua,  propria dell’essere uomo prima che malato.
 
Una complessità da accogliere in una cultura organizzativa che va oltre il predefinito e lo standardizzato.  Che funzioni  operare con un malato non più considerato come un infermo? Le funzioni del profilo infermieristico  sono all’altezza di descrivere la reali potenzialità  lavorative degli infermieri nei diversi contesti di azione lavorativa? Me lo chiedo e lo chiedo a tutti perché penso, per esempio, al contenzioso medico legale quale forma moderna di protesta sociale contro i servizi sanitari e parallelamente penso al rapporto che esiste tra questa problematica e le funzioni dell’infermiere. Che tipo di relazioni dovrebbe avere l’infermiere con un  medico  per concorrere a prevenire un contenzioso medico  legale?  L’essere affiancati giornalmente, medico-infermiere-malato,  garantisce che via sia una relazione di prossimità  fra i tre? E per favorire l’apprendimento d’informazioni che favoriscano un consenso davvero informato che tipo di  interrelazioni  servono?  E che linguaggi usare fra il medico ed il malato e con il medico e con il malato separatamente?  E quale è il rapporto tra il profilo infermieristico, l’organizzazione della assistenza  ed un malato che chiede di essere non più ricoverato come se fosse un corpo da riparare, ma accolto con la sua umanità? Che organizzazioni servono per accogliere l’attualità del malato?
 
Le nostre organizzazioni sono rigide, burocratiche  e preordinate come possono queste caratteristiche  rapportarsi con un malato di un certo tipo? Funzioni predefinite e generiche come  possono rapportarsi con gli atteggiamenti di medicina difensivistica? Che tipo di attività l’infermiere deve organizzare con altre professionalità per essere interconnesso con l’intero sistema? Ed infine che genere di infermiere serve oggi?
Dott. Proia, queste domande serie il tavolo tecnico avrebbe dovuto porle  alla politica o meglio  la dirigenza infermieristica, prima ancora,  avrebbe dovuto porle alla massa di infermieri che ogni giorno vive la contraddizione fra norma e prassi . Porre  queste domande prima agli infermieri, in gruppi di lavoro, attraverso i collegi,  poi alla politica, o a chi dovrebbe farla, avrebbe  evidenziato la volontà di riprendere la riforma sulla evoluzione della professione infermieristica iniziata 20 anni fa e mai conclusa. Allora, forse, il documento sulla crescita delle competenze avrebbe spaventato di meno alcuni infermieri. Senza  questo passaggio critico è poco credibile che l’intenzione sia  stata premurosa nei confronti della  crescita delle competenze infermieristiche.
Massai scrive che serve riprogrammare i professionisti , serve affermare la professione come scienza ed arte e che per farlo serve rivedere il percorso formativo e spiega come (scrive che servono dipartimenti infermieristici e sono in tutto d’accordo con lui) , ma vorrei prima sapere chi ci dovrebbe essere a capo dei dipartimenti infermieristici? Che genere di dirigente? Un dirigente che ha la laurea magistrale, ma che non ha mai messo in discussione  la sua formazione, il suo percorso di crescita il suo essere persona dirigente infermieristica? Quei dirigenti infermieristici che fino ad oggi,  per fare o mantenere la carriera, sono stati  pro- direzioni sanitarie e/o generali  piuttosto che pro-professione infermieristica? Chi governa oggi la professione infermieristica? Chi la alimenta, chi la nutre amorevolmente perché cresca?
 
Non diamo per scontato che tutta la dirigenza infermieristica sia matura per il genere di infermiere che necessiterebbe.
Condivido invece quanto Massai afferma sul fatto che non sarà la questione economica a fermare la formazione degli  infermieri.  E’ vero e ne abbiamo già la dimostrazione basti pensare a tutti i master che gli infermieri hanno fatto a proprie spese  e che non gli sono serviti a nulla se non ad illudere prima e poi frustrare un professionista che voleva avere facoltà di fare, per una specificità che gli veniva riconosciuta attraverso anche un percorso di alta formazione.  Io credo però che oltre alla formazione universitaria e regionale se vogliamo, serva una formazione “altra “con dei contenuti che aiutino l’infermiere a prendere coscienza di sé come persona e poi come infermiere; una formazione che aiuti l’infermiere tipico a non sentirsi più interiormente confuso, disorientato, che lo aiuti a non trattenere  dentro di sé ciò che produce,  ad avere una mente lucida, ordinata e semplice  e soprattutto che lo aiuti a manifestarsi come un infermiere atipico, cioè diverso.
La diversità è scomoda da dichiarare  e per questo di infermieri atipici sembra che ve ne siano pochi , in realtà ci sono, ma sono isolati , nascosti, ma se potessimo studiarli  a grandi masse avrebbero una loro tipicità. La tipicità degli atipici consiste per esempio, nell’avere arricchito la  loro  interiorità, nell’avere acquisito padronanza di sé e nell’avere avuto  bisogno di nuove modalità relazionali. Gli infermieri atipici hanno capito che la complessità ontologica del malato necessita non solo di essere definita, ma approcciata con un nuovo sguardo. Uno sguardo  che non rinuncia a nulla, che non semplifica, che non accetta dicotomie e che per questo riesce a cogliere la relazione fra gli elementi  che vede ,nella consapevolezza che la somma dei singoli elementi non da mai l’immagine unitaria. L’infermiere atipico ha bisogno del medico e non ha paura a dire che l’infermiere è ausilio del medico e viceversa e che sono in una relazione di complementarietà e dunque interdipendenti; usa un linguaggio  che è l’estetica di una organizzazione non decisa da altri, polimorfa, fluttuante e resiliente di fronte alla unicità delle persone che cura. L’atipico non è contento però  di curare in una organizzazione per intensità di cura perché l’intensità di cura non è sinonimo di complessità assistenziale e non  gli permette di manifestarsi per quello che è, e neanche il malato può farlo; nella intensità di cura il suo senso di autonomia è subordinato al suo senso di responsabilità perché ciò che fa non è ciò che lo connota  e se autonomia e responsabilità non sono allineati, sa che non c’è professionalità.
 
Questo nuovo professionista  infermiere potrebbe  essere molto utile in questo momento al  medico, al quale  potrebbe suggerire  che prima bisogna cambiare il modo di essere operatore, medico-infermiere, poi si definisce l’atto/profilo e non viceversa. Peccato però che l’infermiere atipico non si manifesti, bisogna volerlo e cercarlo, ma esiste Dott Proia, ci aiuti a riconoscerlo e l’evoluzione delle competenze  verrà di conseguenza.
 
Marcella Gostinelli
Dirigente sanitario Centro Oncologico Fiorentino

11 giugno 2013
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