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Responsabilità medica. Mettiamo fine a questo tormento medievale

di Giuseppe Maria Gallo

05 GIU - Gentile Direttore, 
mi occupo, da ben oltre un decennio, dell'assistenza in sede penale dei medici e del personale sanitario in genere. Le difficoltà interpretative delle norme, in un continuo susseguirsi di interventi legislativi confusionari ed assai poco risolutivi (leggi Balduzzi e Gelli-Bianco), hanno finito per generare formidabili tensioni fra tutte le componenti in gioco: direzioni, operatori ed utenza.

Se l'obiettivo fosse stato quello di complicare la situazione, scontentando tutti, evidentemente, esso si sarebbe potuto, come si può, ritenere raggiunto brillantemente; nulla obiettandosi al riguardo.

Mi piace essere franco, anche quando ciò che sostengo finisce per confliggere con i miei interessi personali: la nostra nazione si trova ad un bivio ed occorre decidere quale sorte assegnare ai profili penali della colpa medica, soprattutto in ragione dell'insediamento del nuovo esecutivo di governo che sembra opinare di nuovo come paradigma della sua "mission".

Non nego la mia simpatia verso la classe medica in ossequio alle tradizioni familiari, ma, vieppiù, l'avere negli anni constatato quali strali generino nei professionisti "avvisati di garanzia" e successivamente in massima parte archiviati i provvedimenti delle Procure della Repubblica ha costituito un triste fardello che mi ha fatto riflettere profondamente sull'utilità non di una sanzione penale (che non giunge quasi mai) ma di un tormento medievale di natura psicologica che si chiama procedimento, indagini preliminari, consulenza del P.M., accertamento irripetibile, incidente probatorio.

È un rosario che si sciorina in automatico e che, nella stragrande maggioranza dei casi (parlo di numeri che conosco direttamente e perfettamente), non conduce nemmeno al giudizio.

A fronte delle superiori considerazioni che non rivendicano il pregio tecnico di natura giuridica che non hanno, si domanda cosa succederebbe dal punto di vista giudiziario se la situazione interna della "malpractice" medica fosse paragonabile a quella degli Stati Uniti. 

Già, gli USA, gli "States", il Paese del "grande sogno", la culla della ricerca scientifica, ma, anche, delle disparità e delle battaglie sociali senza fine sull'assistenza sanitaria; si resta basiti se si paragonano i sorprendenti risultati negativi di tale Potenza, che cura poco e male i soggetti che accedono alla sanità, rispetto alla minuscola e litigiosa Italia, che cura tutti (ma proprio tutti) e bene, sia pur con i limiti indotti dalla fallibilità umana. 

Confesso di essere stupito dai numeri (col segno "meno") americani, proprio perché provengono da un contesto che si declina, usualmente, secondo la categoria dell'eccellenza.

In Occidente, per il "British Medical Journal", se gli errori medici fossero una malattia occuperebbero il terzo posto, dopo il cancro e le patologie cardiovascolari, ma precedendo - e di parecchio - i decessi per affezioni respiratorie, suicidi, armi da fuoco ed incidenti. 

Venendo al tema in oggetto, per la "John Hopkins", negli U.S.A. gli errori medici causerebbero più di duecentocinquantamila morti l'anno su un totale di oltre due milioni e mezzo di decessi. 

Tali percentuali cambiano secondo altri studi, ma è pacifico che gli errori medici causino un impressionante numero di morti ogni anno. 

Gli autori della citata "John Hopkins" hanno inteso considerare l'atto medico nei seguenti termini: "Un atto terapeutico non intenzionale (azione o omissione) che non raggiunga il risultato proposto, un errore di esecuzione o di pianificazione della terapia o una deviazione dal programma di cura che possa causare o meno un danno al paziente". 

L'errore medico si distingue dal rischio di complicanze che si associa inevitabilmente a qualsiasi procedura o terapia medica.

Alcuni errori sono incontrovertibili (la somministrazione di una terapia sbagliata, una trasfusione con gruppo sanguigno incompatibile, una diagnosi mancata a fronte di certe evidenze).  

Talora, però, è difficile estrapolare il singolo errore umano dall'universalità degli eventi che connota una malattia. 

Gli strumenti attualmente in uso per catalogare le cause di morte non permettono un'identificazione univoca degli errori medici e quindi i dati a disposizione sono poco accurati e, probabilmente, arrotondati "per difetto".

Insomma, il panorama prospetta un sistema sanitario che, in Italia, è da ritenersi, in larga parte, eccellente ed efficiente, garantendo un adeguato accesso pubblico. 

Esistono invece almeno due ordini di ragioni in nome delle quali affrontare il tema degli errori medici. 

In primo luogo, l'inevitabilità dell'errore umano: in un'attività complessa come la medicina è insito il rischio, peraltro ineliminabile, dello sbaglio; colpire il responsabile non ne eviterà, però, il ripetersi. 

In secondo luogo, più del cinquanta per cento delle morti causate dagli eventi surriferiti sarebbero potenzialmente evitabili. 

L'imperativo categorico di natura morale è rappresentato dalla spasmodica tensione finalizzata dalla ricerca del raggiungimento della massima riduzione della possibilità dell'errore umano all'interno di un percorso di cura.

Dunque, l'ineluttabilità dell'errore e la prevenzione dallo stesso, in un circuito che richiede la trasformazione della cultura della colpa individuale (o del "capro espiatorio") in quella della sicurezza, del tutto decontestualizzata dall'archetipo più evoluto del Pianeta, il Cern, l'acceleratore di particelle di Ginevra, la macchina più complessa mai costruita dall'uomo, nella quale però il concetto di errore (non irreparabile) viene addirittura premiato in quanto sostanziale contributo al perfezionamento dell'apparato. 

Ad ogni errore si sottende la colpa di una persona, ma, anche, il fallimento di un processo che non ha attuato le adeguate contromisure per avversarlo; ad esempio, se, per somministrare una terapia, fosse necessaria una doppia identificazione con un collega o l'utilizzo di un sistema elettronico che si con codice a barre, diventerebbe più difficile fallire. 

Similmente, se un caso venisse discusso all'interno di un consulto multidisciplinare di specialisti,sarebbe più probabile l'identificazione degli errori diagnostici o delle terapie inadeguate.

Una consuetudine per i nosocomi anglosassoni, quella del "morbidity ad mortality meeting", dove si disserta di complicanze e decessi nel proprio dipartimento e, con trasparenza, si analizza la storia del paziente andando alla ricerca del malfunzionamento.  

L'esperienza insegna come nessuno sia esente dal rischio di sbagliare e che tutti sono responsabili del progetto di miglioramento della cura dei pazienti, pur nelle diffocoltà segnate dall'aggressività del sistema legale e delle cause risarcitorie, dei ragionamenti del "management" ospedaliero, del "training" dello "staff" medico e paramedico e dell'accesso alle cure.

Il raggiungimento di un sempre più ottimale livello di comprensione della genesi e delle dinamiche degli errori medici potrebbe rappresentare  la preziosa occasione per promuovere la cultura positiva della trasparenza e per combattere attivamente quella, negativa, del responsabile "ad ogni costo". 

Scevra dalla retorica, la constatazione che esistano eroi silenziosi che lottano quotidianamente come operatori all'interno del SSN. conforta quanto, del pari, sconvolge la scoperta che la loro serenità nella prevenzione degli errori sia ampiamente soverchiata dal timore di commetterne, poiché il vero beneficio per i pazienti sarebbe, com'è, quello di far affidamento su una sanità che, in modo sistematico, potesse riconoscere tempestivamente gli errori, affrontandoli per poterne fare memoria.
 
Giuseppe Maria Gallo
Avvocato
Patrocinante in Cassazione
Penalista del Foro di Genova


05 giugno 2018
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