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Fertilità. Conservare gli ovociti: una speranza per tante donne. Dalle tecniche alla legge

di Viola Rita

Anche se poco nota e tutelata, la crioconservazione ovocitaria mediante ‘vitrificazione’ è una tecnica “standard” che permette alle pazienti malate di tumore di preservare la fertilità. Se n'è parlato a Roma in un convegno del Centro Genera di Medicina della riproduzione

02 DIC - Il congelamento degli ovociti, cioè le cellule uovo, è una tecnica “standard” e non più “sperimentale”. Ad affermarlo, sono le due più importanti società scientifiche americane di oncologia (ASCO - Società Americana di Oncologia) e di medicina riproduttiva (ASRM - Società americana di medicina della riproduzione). Facendo il punto sulla situazione italiana, i medici hanno parlato di questo tema durante il convegno “Preservazione della fertilità femminile”, tenutosi lo scorso 29 novembre a Roma ed organizzato dal Centro Genera di Medicina della Riproduzione.
 
Dagli aspetti medici sulla conservazione degli ovociti fino alle difficoltà giuridiche e socio-economiche legate all’applicazione di questa tecnica: sono alcuni degli argomenti affrontati durante la giornata.In generale, il congelamento ovocitario serve a preservare la fertilità di pazienti affette da tumore, garantendo loro la possibilità di una gravidanza futura, una volta guarite.Le terapie antitumorali come la chemioterapia, infatti, distruggono i follicoli primari (elementi fondamentali dell’ovaio, contenenti le cellule uovo), sia a seconda del tipo di molecola usata che a seconda della dose.
 
“La medicina della riproduzione invece permette di crioconservare gli ovociti femminili con raffinate tecniche biologiche ormai consolidate e di raggiungere percentuali di successo analoghe a quelle delle gravidanze ottenute con ovociti ‘freschi’. Inoltre, la crioconservazione ovocitaria risulta essere un tecnica sicura che non aumenta i rischi di patologie neonatali nei bambini”, spiega il Direttore dei laboratori di embriologia dei centri Genera, Laura Rienzi.
“Per dare un’idea, 10 ovociti conservati a 30 anni offrono una possibilità di gravidanza di circa il 40%, mentre a 40 anni questa diminuisce ad un 10% circa. Dopo i 42 anni sconsigliamo la procedura, non solo per la bassa riserva ovarica ma perché diminuisce la qualità cromosomica degli ovociti rimasti”, sottolinea Filippo Maria Ubaldi, Direttore Clinico dei Centri Genera.
 
Aspetti giuridici e socio-economici
Dal punto di vista legislativo, nel convegno viene evidenziato il vuoto normativo dovuto ai limiti della legge 40/2004 sulle Tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita, nella quale non rientra la conservazione degli ovociti nel caso di donne malate di cancro che desiderino una gravidanza. Così esse possono effettuarla solo a spese proprie: questo vale, ad esempio, per l’acquisto dei costosi farmaci induttori della crescita follicolare multipla, cioè che inducono l’ovulazione portando a maturazione contemporanea di più follicoli, (elementi fondamentali dell’ovaio, contenenti le cellule uovo). “Una cifra che non è alla portata di tutti” ha affermato Ubaldi, “e che rischia di rendere possibile il sogno della maternità solo per chi non ha problemi economici. Problemi che spesso insorgono dopo una malattia oncologica perché la persona per molti mesi non può più lavorare a pieno regime proprio per la durata delle terapie oncologiche. Oltre al danno quindi si configura una beffa piuttosto amara. Per i farmaci necessari ad ogni ciclo di stimolazione ovarica servono infatti circa 2-3000 euro e non è detto che basti un solo ciclo. A questa cifra va aggiunto il costo del prelievo, della crioconservazione degli ovociti nel caso in cui la paziente si rivolga ad un centro privato. Il 30% circa dei centri pubblici infatti non congela ovociti (dati ISS)”.
La tecnica è inoltre ancora poco nota e poco presa in considerazione anche tra gli oncologi e gli stessi ginecologi. “Purtroppo sia le pazienti oncologiche in età riproduttiva sia molti operatori del settore presentano un deficit di informazione: é normale che di fronte ad una diagnosi di tumore la priorità sia quella di combattere la malattia con tutte le risorse possibili ma di garantire la fertilità futura di queste donne non si parla ancora abbastanza”, prosegue Ubaldi.

Non bisogna inoltre dimenticare l’aspetto psicologico legato al desiderio della gravidanza. “Molte  pazienti desiderano avere dei figli proprio dopo essere guarite da un cancro, spesso è un modo per celebrare la vita; l’impossibilità di coronare questo desiderio può essere fonte di grande stress e sofferenza psicologica” aggiunge Rienzi. La mancanza di informazione, dunque, “porta le famiglie a trovarsi di fronte a scelte più limitate dopo la malattia, come la donazione di ovociti o l’adozione, alcune anche non percorribili nel nostro Paese, aprendo cosi la strada a lunghi e costosi viaggi della speranza”.

Il Journal of Clinical Oncology ha pubblicato un testo speciale dedicato all'aggiornamento delle Linee Guida per la  Preservazione della Fertilità per i pazienti colpiti da cancro. Il testo ha analizzato 222 pubblicazioni tra studi osservazionali, altri studi, report e trial randomizzati  (nel periodo che va da marzo 2006 a gennaio 2013) e rappresenta una revisione sostanziale delle raccomandazioni del 2006, anno in cui l’ASCO ha pubblicato le prime Linee Guida sull'argomento.
Anche il testo della rivista evidenzia la scarsità dell’informazione e dell’attenzione verso questa tematica. La consulenza relativa alla preservazione della fertilità deve diventare parte del consenso informato prima delle terapie oncologiche e la responsabilità dell'informazione viene estesa ad altre figure sanitarie. Se il paziente non è consapevole del problema oppure la sua attenzione è centrata sul breve termine, cioè sulla guarigione dal tumore, è importante che sia il medico stesso a proporre l'argomento. In tal senso, un dato significativo è riportato in uno studio sullo stesso giornale: il 29% delle donne con tumore al seno ha riferito che l’informazione sui rischi di infertilità ha influenzato le loro decisioni sul trattamento.
Nei casi che interessano i minori le opzioni devono essere discusse con il consenso dei genitori o dei tutori. Il linguaggio deve essere semplice e accessibile: diverse ricerche hanno stabilito la necessità di 'disseminare' informazioni (materiali, brochure ecc) e la discussione di un eventuale piano di trattamento deve includere le evidenze scientifiche, i benefici e i rischi potenziali, statistiche sulla possibilità di portare a termine una gravidanza. Gli studi confermano come discutere gli aspetti relativi alla protezione della fertilità possa diminuire lo stress causato dalla malattia. Molte pazienti dopo la guarigione infatti desiderano avere un figlio ma temono che una gravidanza possa essere rischiosa per se stesse o per il feto.
 
Dati su: tumore, fertilità e crioconservazione
Ogni anno in Italia, le donne che si ammalano di tumoree rischiano l’infertilità a causa delle terapie antitumorali. Di carcinoma mammario si verificano ogni anno 47mila nuovi casi di cui il 5,1% interessano donne con meno di 40 anni di età. Solo tra queste, circa 2400 ogni anno potrebbero proteggere la propria fertilità futura e sperare in una gravidanza dopo la guarigione. Grazie alla diagnosi precoce e all’efficacia delle terapie antitumorali, la sopravvivenza a 5 anni nelle pazienti con cancro della mammella è dell'85%.
“Tra gli agenti chemioterapici, i più aggressivi sono gli achilanti (come la ciclofosfamide), che comportano un elevato rischio di menopausa o una fertilità comunque fortemente ridotta. Il rischio di perdita della fertilità è comunque influenzato da diversi fattori come l’età al momento della terapia, il tipo e il dosaggio di chemio e la posizione e il dosaggio della radioterapia”, illustra ancora Ubaldi. “Nelle donne che iniziano una chemioterapia a 39-40 anni il rischio di andare definitivamente in menopausa raggiunge il 90%, mentre sotto i 35 anni questo rischio diminuisce al 25-30%. Quindi la conservazione degli ovociti è una forma di prevenzione efficace che andrebbe sempre prospettata alle pazienti”.
I tumori non colpiscono solo le donne adulte, ma anche le giovanissime; le nuove strategie antitumorali hanno portato negli ultimi anni ad un aumento della sopravvivenza di bambine, ragazze e donne con linfomi, leucemie tumori ovarici e della mammella.
“Tentare la crioconservazione di tessuto ovarico e degli ovociti nelle bambine prima della pubertà è altamente consigliabile anche per queste pazienti che hanno una ottima riserva ovarica e quindi una maggiore probabilità di ottenere un buon numero di ovociti dalla stimolazione ormonale” continua il dottore. Le terapie standard per la stimolazione ovarica prevedono la somministrazione sottocutanea per circa 10 giorni di FSH – un ormone, prodotto dall’ipofisi, importante per la maturazione di alcuni follicoli-. La stimolazione è possibile anche per le pazienti con tumori ormono-dipendenti: “in quel caso combiniamo alla terapia con FSH anche un farmaco inibitore dell’aromatasi – un enzima importante a livello riproduttivo - che permette di tenere bassi i livelli di estrogeni. Questa stimolazione non sembra avere alcun effetto negativo né sul decorso della malattia tumorale né su eventuali recidive”.
 
Quali sono le tecniche
Le due principali tecniche sono la ‘vitrificazione’ e il ‘congelamento lento’, in cui quello che cambia è la velocità di raffreddamento delle cellule uovo. “La tecnica più nuova è la vitrificazione”, conclude Rienzi. “In essa, si portano le cellule al congelamento in maniera estremamente rapida (-30,000 C° al minuto): gli ovociti vengono trattati con sostanze che li proteggono dalla formazione di cristalli di ghiaccio intracellulare dannosi e poi immersi in azoto liquido alla temperatura di -192C°”.
 
Viola Rita

02 dicembre 2013
© Riproduzione riservata

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