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Se il terrorista è un malato di mente

di Maria Rita Montebelli

La strage di Orlando e quella di Monaco hanno portato alla ribalta un’altra tipologia di attentatore. Si tratta di solitari con personalità borderline o francamente spostate sul versante patologico, molto influenzate dai loro network sociali E così le strategie e i programmi antiterrorismo coinvolgono sempre più spesso i medici

19 SET - E’ successo con la strage del Pulse di Orlando; ma anche con quella dell’Olympia-Einkaufszentrum di Monaco. E di certo non farà eccezione la bomba di New York di sabato scorso. La paternità delle stragi sembra avere ormai due sole matrici.  E’ un attentato dell’Isis. O forse è la strage privata di uno squilibrato che ha imbracciato un fucile contro un mondo da lui percepito come sbagliato. Nella mente di tutti il pericolo viene ormai solo da due parti: dalla radicalizzazione islamica o da una mente disturbata. E la pazzia fa paura come l’Isis, viene messa sullo stesso piano e rischia di portare ad un’assurda semplificazione manichea: quella che mette tutti i musulmani dalla parte dei cattivi e che marchia tutte le persone con malattie psichiatriche come un pericolo per la società.
 
Alla fine, a ben vedere, ad avere la meglio tra queste due categorie sono i terroristi, che godono di attenuanti non certo offerte ai ‘pazzi’. Per i primi, soprattutto quando l’attacco terroristico non viene consumato nelle nostre città, a volte si fa lo sforzo di guardare le cose dal loro punto di vista, invocando così tra le eventuali motivazioni la ribellione all’oppressione o alla persecuzione politica, il loro credo religioso estremizzato e così via. Ma se ad imbracciare un fucile e a sparare all’impazzata tra i clienti di un supermercato è un ragazzo con la mente sottosopra, l’unica reazione è lo stigma per le malattie mentali. Che va di pari passo con la condanna per quei servizi sanitari che non sono riusciti a riconoscere la pazzia e a rinchiuderla in un sarcofago di cemento. Come le scorie radioattive di Chernobyl.
 
Ad attirare l’attenzione su questa pericolosa deriva del giudizio, fomentata anche da alcuni titoli a caratteri cubitali, ci pensano dalle pagine di British Medical Journal tre psichiatri londinesi:  Kamaldeep Bhui, professore di epidemiologia e psichiatria culturale alla London School of Medicine and Dentistry, Adrian James del Royal College of Psychiatrists e Simon Wessely del King’s Centre for Military Studies, King’s College.
Il loro take home message è molto semplice: la sovra-semplificazione e la mancanza di prove stigmatizzano le persone con malattie mentali e ostacolano gli sforzi di prevenzione.
 
E paradossalmente, sebbene sia ormai evidente che esistano diversi ‘tipi’ di terroristi, una cosa che li accomuna tutti c’è ed è che loro stessi si guardano bene dal reclutare persone con problemi mentali forse – scrivono gli autori – perché condividono con il resto della società gli stessi punti di vista che portano a stigmatizzare le persone con disturbi mentali e a considerarli inaffidabili, difficili da addestrare e, quindi una minaccia alla sicurezza. Anche a quella degli stessi terroristi!
 
La strage di Orlando, quella di Monaco, forse anche quella recentissima di New York hanno portato alla ribalta un’altra tipologia di attentatore. Si tratta di solitari con personalità borderline o francamente spostate sul versante patologico (tra le varie diagnosi figurano i disturbi da personalità narcisistica, la schizofrenia, i comportamenti anti-sociali, i disturbi dello spettro autistico), molto influenzate dai loro network sociali.  Ma ci sono anche delle personalità ancora più complesse come quella di Andres Brevik, autore della spaventosa strage di Utoya, che sviluppano deliri politico-religiosi sbocciati dalla loro patologia psichiatrica.
 
“Siamo fin troppo rapidi – scrivono gli autori – ad invocare il ‘terrorismo’ come causa della maggior parte degli atti di violenza perpetrati da un singolo o da gruppi e allo stesso tempo a proporre la malattia mentale come la spiegazione a questi comportamenti complessi”. E questo non solo stigmatizza in maniera ingiusta i tanti milioni di persone affette da patologie psichiatriche, dissuadendoli probabilmente dal cercare aiuto, ma impedisce anche di analizzare in maniera accurata il problema, prima di giungere ad una conclusione.
 
E intanto il governo inglese ha lanciato una strategia di anti-terrorismo (CONTEST) che prevede anche una serie di azioni preventive (Prevent). Protagonisti del programma sono anche i medici di famiglia, spaventatissimi tuttavia all’idea di dover contribuire in prima linea alla security dello stato e per questo pronti a trincerarsi dietro una serie di scuse: dalla mancanza di prove certe che il piano funzioni, al segreto professionale.
 
Dal canto loro i membri del Royal College of Psychiatrists hanno redatto delle linee guida cliniche ed etiche per far sì che psichiatri e altri professionisti del settore supportino adeguatamente il programma. Senza farsi troppe illusioni allo stesso tempo, visto che predire l’occorrenza di eventi molto rari, quali sono per l’appunto suicidi e omicidi, non è così facile, neppure per gli addetti ai lavori. Ciò non toglie che qualcosa si possa e si debba fare. E ne è un buon esempio – ricordano gli autori – il National Confidential Inquiry into Suicide and Homicide, un approccio che aiuta a ridurre questi gesti drammatici tra le persone affette da patologie mentali.
 
Una bacchettata finale gli autori dell’articolo su BMJ la riservano alla stampa. Fondamentale infatti per ridurre il rischio dei cosiddetti copycat, gli episodi di emulazione è, secondo loro, che i mezzi d’informazione adottino un atteggiamento più maturo nei reportage relativi alle stragi. Cosa tutt’altro che scontata purtroppo. La strage, vista dal divano di casa, fa audience. Ma certi commenti o certe immagini andrebbero decisamente censurati. Per il bene di tutti.
 
Maria Rita Montebelli

19 settembre 2016
© Riproduzione riservata

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