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Sostenibilità ed equità del Ssn. Alcuni consigli (non richiesti) al neo Governo giallo/verde

di Giovanni Rodriquez

Nei loro ultimi rapporti, Censis e Gimbe sono tornati a porre la questione di un servizio sanitario di difficile sostenibilità economica e che, già oggi, pesa in larga parte sulle spalle degli italiani. Da qui la prospettiva di una forte espansione del secondo pilastro fino ad una possibile transizione verso un sistema misto. Eppure il Ssn economicamente è sostenibile, come certificato dalla Corte dei Conti. E sulle iniquità si potrebbe intervenire, senza stravolgere il servizio universalistico, con alcuni investimenti mirati ed una programmazione seria. Ecco come

09 GIU - Boom della spesa sanitaria privata che supera i 40 miliardi. Servizio sanitario da rilanciare o smantellare. Censis e Gimbe, a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro, tornano a porre la questione di un servizio sanitario di difficile sostenibilità economica e che, già oggi, pesa in larga parte sulle spalle degli italiani.
 
In particolare Gimbe, nelle sue conclusioni, è molto chiara sul punto: “Se si intende realmente preservare la più grande conquista dei cittadini italiani, oltre ad aumentare il ritorno in termini di salute del denaro investito in sanità, è indispensabile invertire la rotta sul finanziamento pubblico. In alternativa, occorrerà governare adeguatamente la transizione ad un sistema misto, al fine di evitare una lenta involuzione del Ssn che finirebbe per creare una sanità a doppio binario, sgretolando i princìpi di universalismo ed equità che da 40 anni costituiscono il Dna del nostro Servizio sanitario nazionale”. Per evitare la deriva verso un sistema misto, servirebbe un Fondo sanitario a quota 220 miliardi entro il prossimo 2025. Parliamo dunque di un incremento di circa 15 miliardi l’anno. Ossia il 60% del peso economico di un’intera finanziaria. 
 
Quanto alla spesa out of pocket di oltre 40 miliardi, come già scritto su queste pagine, il tasso di spesa sanitaria privata è rimasto invariato sia nel periodo pre crisi che nella fase successiva, procedendo al ritmo del +18,4%. Sappiamo poi che nella composizione di 40 miliardi di spesa sono stati fatti rientrare anche quella per ticket, la differenza di prezzo tra farmaco "brand" e farmaco generico, oltre ai prodotti extra Ssn, quali farmaci di fascia C, integratori e prodotti omeopatici. Una grande parte è poi dovuta all’odontoiatria, quella sì la vera ‘cenerentola’ del servizio pubblico.
 
Insomma, per ‘far numero’ sembra sia stato raggruppato un po’ tutto, comprendendo anche prodotti non essenziali e che esulano dai Livelli essenziali di assistenza forniti dal servizio pubblico.
 
Intendiamoci, che molte cose non funzionino come dovrebbero è fuor di dubbio. Quello che si vuole mettere in discussione è questa situazione, quasi irrecuperabile, che sembrerebbe costringerci a decidere se implementare il finanziamento al Ssn in proporzioni oggettivamente poco probabili o procedere verso una forte espansione del secondo pilastro con una transizione verso un sistema misto.
 
Ma davvero il Sistema sanitario nazionale è economicamente insostenibile? Proviamo ad analizzare anche noi alcuni numeri. Nel suo referto al Parlamento, lo scorso marzo, la Corte dei Conti certificava l’andamento in diminuzione del deficit, ridotto a circa un miliardo e "con buone prospettive di rientro”. Si parlava di un sistema in “sostanziale equilibrio”. Ma, se dal punto di vista finanziario il sistema sanità, grazie anche alle misure pregresse di contenimento della spesa, risulta essere ancora più che sostenibile, persistono invece problemi legati ad equità e accesso alle cure.
 
Nel contratto di Governo sottoscritto da Movimento 5 Stelle e Lega si parla di una volontà di investimento nel Servizio sanitario nazionale. La stessa ministra della Salute Giulia Grillo, nelle sue prime dichiarazioni, ha riaffermato la volontà di invertire la tendenza dei finanziamenti per ridare dignità al sistema e superare le attuali iniquità.
 
Proviamo ad avanzare qualche suggerimento (non richiesto) per intervenire su quelli che figurano oggi come i principali ostacoli nell’accesso alle cure.
 
Ticket. Innanzitutto c'è l’annosa questione riguardante la compartecipazione alla spesa. I ticket, secondo quanto sancito nel Patto della Salute 2014-2016, dovevano essere rimodulati. Ma, per una serie di vicissitudini, il tema è rimasto accantonato in tutti questi anni. Solo nell’ultima legge di Bilancio si è deciso per un intervento - in verità molto parziale - sul superticket da 10 euro a ricetta per prestazioni diagnostiche e specialistiche. Da qui la realizzazione di un fondo strutturale da 60 milioni l'anno per agevolare l'accesso alle prestazioni sanitarie a specifiche categorie di soggetti vulnerabili.
 
Forse qualcosa in più in questo caso può esser fatto. Secondo quanto certificato dalla Corte dei Conti nella sua relazione sulla spesa pubblica del 2017, sappiamo che per la compartecipazione al costo su farmaci, visite mediche, esami diagnostici e pronto soccorso i cittadini hanno pagato 2,885,5 miliardi.
 
Si può tornare a pensare, come fatto nel 2000 dall’allora ministro Umberto Veronesi, ad un’Italia senza ticket? Un’abolizione graduale, monitorata, da portare a termine magari in un piano quinquennale di investimenti per rendere economicamente più ragionevole la misura, potrebbe mandare in soffitta questa “tassa sulla malattia” sgravando il cittadino di una spesa media di 48 euro l’anno a testa. Una media che, mai come in questo caso, ci dice poco sull’effettivo peso di questo balzello. Dicevamo una “tassa sulla malattia” proprio perché il ticket lo si paga quando si è ammalati o sospetti di esserlo e sappiamo che i ticket da pagare procapite “reali”, qualora occorra intraprendere un complesso percorso diagnostico-terapeutico, possono arrivare anche a diverse centinaia di euro l’anno ad assistito.
 
Liste d’attesa. Resta poi il problema delle liste d’attesa e di una qualità delle cure percepita come bassa soprattutto nelle regioni meridionali. A tutto questo si accompagna ormai da tempo una polemica legata all’attività intramoenia, vista da alcuni come una ‘scorciatoia’ a pagamento. Tesi da sempre negata dai medici che, invece, sottolineano come l’attività libero professionale valorizzi la scelta dei cittadini e non abbia nulla a che vedere con questa problematica.
 
Il quadro sull’intramoenia è chiaro, così come definito dalle legge n. 120/2007. Una soluzione intelligente sembra essere quella adottata di recente da una delibera della Regione Toscana. Se la coda per un intervento chirurgico si fa troppo lunga le Asl e le aziende ospedaliere toscane potranno acquistare la prestazione chirurgica necessaria in intramoenia senza che il cittadino sborsi un euro. In sostanza la libera professione di medici e sanitari diventa anch’essa un Lea, seppur in casi ben specifici, con lo scopo di tagliare le liste d’attesa troppo lunghe.
 
Più in generale, sul piano normativo, può essere ripreso in mano il Piano nazionale liste d’attesa rimasto abbandonato dal 2012. Così come possono essere promossi modelli già adottati da alcune amministrazioni regionali con risultati convincenti. Solo a titolo di esempio (senza scontentare altre Regioni 'virtuose') possiamo citare il modello Emilia Romagna che ha portato a garantire prestazioni sanitarie entro i tempi stabiliti in circa il 98% dei casi. In questo caso parliamo di misure che necessitano di un forte intervento organizzativo, più che finanziario.
 
Odontoiatria. C’è poi il tema dell’odontoiatria. Come dicevamo, la ‘cenerentola’ del servizio sanitario pubblico e quella che più pesa sulle tasche dei cittadini. Nell’ambito dei Livelli essenziali di assistenza le cure odontoiatriche sono riconosciute solo fino ai 14 anni e a certe categorie particolarmente svantaggiate. Pertanto, la cura dei denti resta un problema per i redditi medi e medio-bassi. Un problema aggravatosi durante la crisi e che ha contribuito al boom del low cost e del turismo sanitario all’estero con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di sicurezza delle cure.
 
Per arginare la situazione, si può pensare ad un primo vero intervento di natura pubblica in un settore che, ad oggi, è erogato quasi esclusivamente da privati (circa al 95%). Come? Assumendo nell’ambito del Ssn un numero adeguato di odontoiatri, tecnici di laboratorio, odontotecnici ed altre figure professionali che operano in questo settore da inserire nell’organico della sanità a livello specialistico ambulatoriale. In questo modo si potrebbe, inoltre, garantire uno sbocco professionale a quelle migliaia di giovani che non possono economicamente garantirsi l’apertura di un proprio studio privato, riuscendo anche ad avviare un possibile processo virtuoso di studio e ricerca nell’ambito del servizio pubblico. Tutto questo attraverso un’attenta programmazione pluriennale da concordare con Regioni e Ordini professionali interessati.
 
Nel mentre, come già accade in alcune Regioni, si potrebbero stabilire tariffe pubbliche prestazioni con ambulatori privati, a carico del Ssn, per consentire ai cittadini di accedere a queste prestazioni previa prescrizione del medico specialista o CUP. Tariffe da modulare sulla basse delle diverse fasce di reddito. 
 
Detto questo, restano ovviamente molte altre questioni aperte (integrazione socio sanitaria, cronicità, innovazione, rivalutazione del personale, ammodernamento tecnologico e strutturale del Ssn, ecc.) di cui si occupa anche il contratto di governo 5 Stelle/Lega, ma i punti e le idee sopra abbozzate riteniamo possano, da sole, invertire rapidamete la rotta anche rispetto a quel rancore e a quella insoddisfazione verso il Ssn di cui parlava proprio il Censis.
 
Giovanni Rodriquez

09 giugno 2018
© Riproduzione riservata


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