La mobilità sanitaria ai tempi del Coronavirus

La mobilità sanitaria ai tempi del Coronavirus

La mobilità sanitaria ai tempi del Coronavirus

Gentile Direttore,
le sottoponiamo una riflessione in merito all’interessante articolo del 30 marzo “Mobilità sanitaria. Partita da 4,3 miliardi”. Un piccolo contributo che ci auguriamo possa stimolare la discussione su un tema che era senz’altro predominante prima del Covid. E forse tornerà ad esserlo, in previsione del Piano per la mobilità sanitaria del nuovo Patto per la Salute.
 
In tanti e bene (rapporto Gimbe o Cergas Bocconi, ad esempio), hanno analizzato puntualmente i risvolti che la mobilità produce sul Sistema.
La nostra riflessione, invece, parte dalle immagini delle corse ai treni, alla stazione di Milano nell’imminenza del DPCM del 9 marzo, che resteranno tra gli emblemi dell'effetto sociale e antropologico del Covid.
 
Le conseguenze dell’epidemia, tanto per l'impatto sulla storia, quanto per l’universalità del coinvolgimento, obbligheranno a riformulare approcci metodologici, specifici e sistemici.
Nell'ambito sanitario sarà necessario procedere ad un ripensamento del sistema, come suggerito in tanti attuali illuminanti contributi su QS, e andrà fatto sia nella dimensione clinica dell'assistenza quanto in quella strategica.
 
È in quest’ultimo ambito che vogliamo ricondurre le scene di quella notte – della stazione di Milano – ad un significato sistemico rispetto ai servizi assistenziali, con una riflessione scevra da giudizi sui fatti che non ci competono né tantomeno abbiamo intenzione di proporre, ma da condividere in termini di programmazione dei flussi sanitari.
 
Quella circostanza, escludendo considerazioni antropologiche, ha determinato un flusso di persone che si sono spostate da nord a sud, ribaltando, in una sola volta e nello stesso tempo, un fenomeno ormai strutturato e non soltanto sanitario, con direttrice sud/nord.
 
La fuga di quei giorni, per tornare alle famiglie di origine, induce ad una riflessione sul significato della stessa ed, in particolare, che il fenomeno non si riconduce ad una vera migrazione quanto ad un trasferimento. Decine di migliaia di persone che, pur vivendo e concentrando la propria vita nelle regioni settentrionali, mantengono non soltanto saldi legami con i territori di origine ma anche la residenza, contribuendo a generare mobilità sanitaria.
 
Una mobilità che esula dalla qualità delle cure e dalla capacità di offerta dei servizi, fattori trainanti dei veri flussi sud/nord. Una mobilità “fittizia”, connessa alla residenza ma il cui impatto non può essere più tralasciato: perché sulla residenza si basa l’attuale compensazione tra SSR.
 
I numeri che l'effetto coronavirus ha fatto emergere, obbligano una revisione degli attuali processi di compensazione della mobilità, e più in generale dei sistemi di programmazione basati sulla residenza. Le dinamiche dei flussi di mobilità, per i volumi coinvolti e per le risorse in gioco, devono portare ad un ripensamento del confinamento della sanità quasi esclusivamente entro i limiti amministrativi delle Regioni.
 
Lo spostamento di massa per il rientro nelle regioni di residenza, seppur ricondotto all’eccezionalità dell’epidemia, testimonia la carenza di organicità e gli ormai strutturali scompensi che il Nostro sistema sanitario registra tra le regioni. Quelle meridionali hanno osservato come il rientro costituisca, contemporaneamente, un rischio rispetto alla veicolazione del virus e alla sostenibilità dei servizi sanitari, storicamente in difficoltà.
 
La paura risiede nella consapevolezza di non poter essere in grado di assorbire l'impatto del rientro, non soltanto rispetto all'effetto esponenziale eventuale dovuto all’epidemia, ma già anche al solo incremento degli assistiti. Assistiti che sono originariamente riconosciuti alle regioni di residenza ai fini dei finanziamenti, che poi, per effetto degli enormi livelli di mobilità passiva, si compensano a livello nazionale.
 
Compensazione che non può più considerarsi marginale ma da trattare come componente strutturale. Elevati livelli di mobilità passiva, da un lato assorbono risorse economiche che spingono al ridimensionamento dei SSR nella capacità assistenziale offerta. Dall'altro modificano il target di popolazione di riferimento con un adeguamento anche in termini qualitativi.
 
Un circolo vizioso in cui la mobilità interregionale si autoalimenta e paradossalmente si autodetermina, diventando componente strutturale del sistema.
 
La riflessione proposta, in una visione post-epidemica, è quella di ripensare la mobilità sanitaria e la sua gestione, anche coerentemente le previsioni del nuovo Patto per Salute, come elemento sistemico che può dare equilibrio e organicità all'intero SSN, in cui le differenze tra regioni possano essere collaborative e non concorrenziali.
 
Il potenziale offerto dalle tecnologie e il rafforzamento della sanità digitale, permettono di superare il concetto di residenza per una valutazione più attenta dei bisogni assistenziali.
 
Una risorsa condivisa, un treno solidale che non divide, ma unisce.
 
La mobilità, quindi, può costituire una tra le leve fondamentali su cui poggiare le migliori risposte di salute nei diversi territori, e da cui far ripartire la programmazione sanitaria dopo il coronavirus.
 
 
Francesco Colavita
Giuseppe Massaro
Esperti di programmazione e management sanitario

Francesco Colavita, Giuseppe Massaro

07 Aprile 2020

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