La recente sentenza della Corte Costituzionale ha fatto definitivamente chiarezza su un punto cruciale: il suicidio medicalmente assistito, in presenza di condizioni ben precise, è un diritto della persona, che deve essere garantito dal Servizio sanitario nazionale. Non si tratta più solo di un principio etico o di una questione morale, ma di una posizione giuridica soggettiva tutelata, che nasce dalla libertà di autodeterminazione riconosciuta dalla nostra Costituzione.
La Consulta ha affermato senza ambiguità che chi, pur affetto da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze insopportabili, mantiene la capacità di decidere in modo libero e consapevole, ha diritto a essere accompagnato – non ostacolato – dallo Stato nel proprio percorso verso una fine dignitosa. È un pronunciamento che obbliga a ripensare il dibattito parlamentare in corso. I nuovi emendamenti presentati dalla maggioranza al Senato cercano di dare un assetto normativo al fine vita, finora lasciato in una zona grigia, fatta di incertezze applicative e ambiguità normative. Si introduce, giustamente, l’obiezione di coscienza per tutto il personale sanitario, garantendo che nessuno sia obbligato a partecipare ad atti contrari alla propria morale o al proprio sentire professionale. Si ribadisce il divieto di eutanasia, sottolineando la netta distinzione con il suicidio medicalmente assistito, e si rafforzano le pene per chi dovesse approfittarne a scopi di lucro, prevenendo ogni deriva speculativa.
Tuttavia, proprio mentre si afferma il diritto costituzionale al suicidio assistito, alcuni passaggi del testo legislativo rischiano di essere incoerenti con lo spirito delle sentenze della Corte. Uno su tutti: l’obbligo per il paziente di essere inserito in un percorso di cure palliative prima di accedere alla procedura. È un vincolo che appare in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione, che tutela non solo il diritto a essere curati, ma anche quello a rifiutare le cure. E rischia di trasformarsi in un ostacolo concreto per chi, per motivi personali, culturali o esperienziali, non vuole o non può intraprendere un simile percorso. Le società scientifiche e i rappresentanti della medicina palliativa lo hanno già detto chiaramente: obbligare significa escludere, laddove si dovrebbe includere.
Meglio sarebbe, piuttosto, prevedere che il sistema sanitario garantisca ovunque, in modo capillare, un’offerta seria e accessibile di cure palliative, sia in struttura sia a domicilio, lasciando poi alla persona la libertà di accedervi o meno. L’obiettivo di una buona legge non deve essere quello di guidare la scelta, ma di renderla possibile per chiunque, in ogni parte del Paese.
L’altro punto su cui serve un ripensamento riguarda la collocazione stessa del suicidio assistito. La Corte è stata chiara: deve essere il Servizio sanitario nazionale, in collaborazione con il comitato etico territorialmente competente, a garantire l’intero percorso – dalla verifica delle condizioni alla fornitura dei dispositivi, fino al supporto tecnico e umano per l’esecuzione. Un modello pubblico, simile a quello già previsto per l’interruzione volontaria di gravidanza, offrirebbe maggiori garanzie di trasparenza, di sicurezza e di equità, proteggendo al tempo stesso i pazienti e i professionisti.
Ed è proprio l’inclusione del fine vita nel perimetro pubblico e universalistico del Servizio sanitario nazionale che può fugare un rischio concreto: quello della privatizzazione di questo percorso. Lasciare il suicidio assistito fuori dalla cornice pubblica significherebbe aprire la porta a derive pericolose, in cui le persone più vulnerabili potrebbero trovarsi esposte a dinamiche di mercato, costrette a ricorrere a strutture private, magari con costi elevati o in contesti poco trasparenti. Significherebbe esporre il fine vita al rischio di speculazioni, a quel “business della morte” che la stessa maggioranza di governo vorrebbe contrastare sul nascere, e alla possibile creazione di ghetti sanitari dove chi ha risorse sceglie, mentre chi non le ha subisce o rinuncia. Al contrario, riportare questo momento delicatissimo sotto l’egida del sistema pubblico significa proteggerlo, renderlo accessibile, sicuro e rispettoso della dignità di ogni persona, senza distinzioni economiche o sociali.
Il timore di una “medicalizzazione” della morte non deve diventare alibi per l’abbandono. Al contrario, inserire il suicidio medicalmente assistito in un quadro istituzionale significa rafforzare la tutela delle persone più fragili, garantendo che ogni decisione venga presa con piena consapevolezza, lontano da pressioni indebite o solitudini forzate.
Siamo davanti a un bivio. La legge, oltre a dover puntualmente tutelare da derive eutanasiche deve anche avere il coraggio di riconoscere che la libertà, per essere reale, ha bisogno di essere tutelata e sostenuta dallo Stato. Non possiamo chiamarla autodeterminazione se la lasciamo sospesa tra ostacoli burocratici e vincoli ideologici.
Offrire, non imporre. Accompagnare, non abbandonare. Garantire, non impedire. È questa la direzione in cui dovrebbe andare una normativa sul fine vita degna di un Paese che voglia davvero mettere al centro la persona, la sua dignità e la sua libertà, fino all’ultimo respiro.
Giovanni Rodriquez