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Sulla gestione dei pazienti psichiatrici autori di reato facciamo chiarezza 

di Enrico Zanalda

22 FEB -

Gentile Direttore,
leggo con stupore l’articolo, pubblicato il 20 febbraio scorso come Lettera al direttore di Quotidiano Sanità, della psicoanalista psichiatra dr.ssa Gemma Brandi, la quale in maniera elegantemente polemica interviene nel dibattito che intercorre sull’eventuale revisione degli artt. 88 e 89 del Codice penale. Personalmente ritengo che tale revisione non possa essere demandata agli psichiatri ma sia di competenza di chi si occupa del diritto e dei principi, prima di tutto costituzionali, che sono alla base del nostro ordinamento.

Tuttavia, è estremamente rilevante sollevare il problema del gravissimo disagio in cui si trovano i servizi di salute mentale in Italia per lo scarso investimento economico accompagnato dall’incremento dei compiti di cura attribuiti, che purtroppo spesso sconfinano in compiti custodiali incorrettamente demandati anche in assenza di criteri clinici evidenti. Concordo con la collega sull’inopportunità di lasciare in carcere, strutture inadeguate sotto molti profili, persone con disturbi mentali, sebbene molte patologie psichiatriche (così come quelle mediche), con le adeguate risorse, possano trovare trattamento sufficiente in spazi clinici intramurari dedicati, così come avviene per le tossicodipendenze.

L’attuale generale condizione di criticità dei detenuti e delle risorse sanitarie a loro dedicate all’interno degli istituti di pena rende il problema drammatico. Questa situazione è stata segnalata ripetutamente sia dalle società scientifiche che dagli operatori della salute mentale coinvolti attivamente nell’applicazione della riforma determinata dalla L 81/2014. La quota di persone sottoposta a restrizioni della libertà per vizio di mente è in costante aumento ed è per lo più in carico ai servizi territoriali per i quali continua a non esserci un adeguato investimento in termini di personale. Il famoso 5% della spesa sanitaria da destinare alla salute mentale, che era previsto sin dal 1994, e quindi molto tempo prima della legge sul superamento degli OPG, non è mai stato raggiunto in nessuna regione. La mancata possibilità di una seria e tempestiva presa in carico territoriale comporta rischi sanitari e di reiterazione di comportamenti illeciti, nel caso di pazienti autori di reato.

La legislazione vigente sul ricovero coatto o meglio il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) è stata concepita per le situazioni acute, mentre risulta poco efficace a prevenire ricadute in pazienti senza consapevolezza di malattia che necessitano di lunghi percorsi di cura. A riprova di ciò si evidenzia che la maggior parte dei pazienti entrati in REMS era già conosciuta dai servizi e, in una buona percentuale, aveva effettuato precedenti TSO. Questi pazienti con il vincolo giuridico sovente riescono poi a seguire percorsi di cura che altrimenti non avrebbero effettuato. Da ciò una delle proposte della Società Italiana di Psichiatria Forense sul “vincolo di cura” che potrebbe riprendere il “patto di rifioritura” proposto alcuni anni or sono dal prof. Cendon.

L’attuale regolamentazione in materia di misure di sicurezza “psichiatriche” è stata definita “pericolosa” dalla sentenza 22/2022 della Corte Costituzionale e non vi è alcun dubbio che si debbano individuare delle modalità ulteriori a integrazione di quelle in atto per migliorarla. Ancora una volta bisogna sottolineare che le soluzioni, per essere adeguate, non possono essere isorisorse: qualsiasi modificazione degli agli artt. 88 e 89 del Codice penale si voglia adottare è indispensabile sia accompagnata da un adeguato investimento economico. Polemizzare tra operatori su questioni di principio mi sembra del tutto superfluo, cerchiamo di avere la possibilità di lavorare in sicurezza fornendo a Dipartimenti di Salute Mentale, inclusivi della Psicologia e delle Dipendenze, il personale che il documento AGENAS individua quale parametro necessario per il loro funzionamento.

In merito, poi, alle considerazioni di valore che la collega esprime verso gli operatori dei servizi territoriali, chiederei una maggiore attenzione e moderazione. Solo chi vive la quotidianità dei nostri servizi e le criticità che devono essere affrontate può capire lo stato di tensione costante, al limite di burn-out degli operatori. Questi dovrebbero ricevere comprensione e risposte ai bisogni, e non stigmatizzazione basata su preconcetti ideologici e suggestioni di un mondo ideale che tutti vorremmo abitare ma al quale nessuno verosimilmente arriverà, se non con drastici cambiamenti di contesto (sociale, normativo, economico, organizzativo).

Preciserei, infine, che ciò a cui assistiamo non è il suicidio della psichiatria, ma l’agonia del servizio sanitario, particolarmente accentuato nella sua declinazione territoriale. È invece senz’altro da cogliere l’invito ad una collaborazione interistituzionale volta ad individuare soluzioni innovative, purché percorribili e a breve, per superare le gravi criticità attuali.

Dr Enrico Zanalda

Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense
In rappresentanza del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Psichiatria Forense



22 febbraio 2024
© Riproduzione riservata

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