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La scelta tra chi lasciar vivere e chi morire non si può basare su un algoritmo

di Claudio Agostini

04 APR - Gentile Direttore,
nelle scorse settimane la SIAARTI, Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva, ha pubblicato un documento dal titolo “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intesivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”. Il bene in gioco è noto: il diritto alla tutela della salute, che la nostra Costituzione (art. 32) definisce fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti.
 
Nel 1978 una legge, firmata da Tina Anselmi, prima donna Ministro della Repubblica, istituì il Sistema Sanitario Nazionale italiano, dando finalmente compimento al dettato costituzionale e impegnandosi ad offrire un’assistenza sanitaria completa e adeguata a tutti i cittadini, senza distinzioni di genere, residenza, età, reddito o posizione lavorativa.
Con ciò veniva sancito un patto fra cittadino e Stato, una sorta di assicurazione per la salute, per usare una formula lontana dal modello sanitario di cui andiamo tutti orgogliosi. Oggi siamo di fronte a una sproporzione fra bisogni e risorse disponibili. Di fronte a questa insufficienza di risorse bisogna scegliere. Chi? Con quali riferimenti etici? Con quali criteri?
 
La SIAARTI offre indicazioni precise, una sorta di algoritmo che ha spaccato il mondo dei professionisti fra chi pensa che l’etica utilitaristica non possa contaminare i discepoli di Ippocrate e chi pensa che alla fine bisogna scegliere poiché comunque, qualunque via si imbocchi, resteranno dei morti sulla strada.
 
La nostra Costituzione, considerata una delle più belle del mondo, afferma che lo Stato ha particolarmente a cuore le minoranze, le persone fragili, i territori di confine. Il Servizio Sanitario Nazionale, che ci colloca orgogliosamente fra i Sistemi Sanitari più avanzati ed efficienti al mondo, mutua questi valori e non esita a investire molte risorse in favore di chi ha molto bisogno.
 
Un esempio a me noto in virtù della professione che esercito: i Servizi psichiatrici occidentali investono l’80% delle risorse per il 20% dell’utenza, ovvero in favore dei pazienti più gravi e tendenzialmente cronici, quindi con minori chances di guarigione. E’ giusto? La Germania nazista aveva in fondo risolto la questione in modo semplice, con la famigerata AKTION T4 che nel 1939 iniziò con i disabili psichici la prova generale dell’olocausto.
 
La citazione storica apparirà azzardata o addirittura fuori luogo, ma a me pare che una riflessione vada fatta se perfino le Nazioni Unite hanno sentito il dovere di lanciare un allarme rispetto a scelte mediche che tendono a privilegiare chi ha maggiore speranze di sopravvivere. Catalina Devandas Aguilar, Relatrice Speciale alle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ha infatti affermato che “le persone con disabilità devono avere la garanzia che la loro sopravvivenza sia considerata una priorità”.
 
Evidentemente qualcuno sente nell’aria un rischio, ovvero quello che un algoritmo possa sostituire il medico nel decidere quando alzare il pollice e quando abbassarlo, sgravandolo non tanto o soltanto dai contenziosi giudiziari ma dal possibile naufragio emotivo.
Eppure il problema esiste, e non può essere eluso: tre pazienti, un respiratore. E’ crudo a dirsi ma in alcune zone d’Italia è già così. Chi ne ha diritto? La logica del primo arrivato non avrebbe nulla di meno inquietante della logica dell’aspettativa di vita, lasciando alla la casualità l’onere di far girare la roulette della vita e della morte.

Ma la logica dell’aspettativa di vita, più volte richiamata dal documento della SIAARTI è più “etica”, più “neutrale”?
Lungo il percorso della metropolitana che attraversa Washington DC dai quartieri poveri e neri a sud est fino alla ricca e bianca contea di Montgomery si guadagna un anno e mezzo di speranza di vita ogni miglio, per un totale di vent’anni di differenza nella speranza di vita fra gli estremi.
Michael Marmot, dell’University College di Londra ha definito queste differenze “status syndrome”, locuzione che vuole designare un meccanismo universale di spiegazione delle differenze nella salute che nascono da disuguaglianze sociali.

E’ giusto che un uomo di 75 anni, con un livello di salute compatibile con l’età, (iperteso, un po’ in sovrappeso), che ha lavorato fino a pochi anni prima pensando di essersi guadagnato (o meglio, di aver pagato) il diritto all’assistenza, venga invitato a farsi da parte perché un giovane ha più diritto di lui all’ambito respiratore? E allora? Come fare? Le risorse sono davvero limitate, alla fine bisognerà pure decidere!

Quando fu scritto l’art. 32 della Costituzione v’era consapevolezza, come fu esplicitamente richiamato dal relatore dell’articolo, che i valori in gioco erano fra i più delicati e importanti per quella che voleva costituirsi come una moderna democrazia.

Questo articolo fu scritto da una società scientifica? No, lo scrissero - dopo settimane di dibattiti - i padri costituenti, fra i quali v’erano personaggi della levatura di Aldo Moro, all’indomani di quel terribile periodo di compressione delle libertà individuali che fu l’esperienza nazifascista.

Se dunque oggi dev’esserci un dibattito su questi temi di fondamentale importanza si deve allargarlo a tutte le forze sociali e politiche, coinvolgendo il mondo degli intellettuali e le istituzioni religiose, i cittadini, perché si sta parlando di quale società vogliamo, in uno scenario in cui oggi è la pandemia a imporre le scelte e domani potrà essere il sovraffollamento del pianeta. E questo dibattito non può/potrà essere appannaggio di una sia pur prestigiosa società scientifica.

In gioco c’è il fulcro etico del nostro agire professionale che si colloca, inevitabilmente, da Ippocrate in qua, nello spazio delicato e sacro della relazione medico/paziente, nel quale ognuno deve potersi assumere la responsabilità di ciò che fa e non fa, di ciò che dona e di ciò che sottrae.
E’ in questo spazio, non in un algoritmo, che si gioca la scelta etica, dolorosa, difficilissima, necessariamente interpersonale (nel senso duale) ma anche collettiva, politica, della nostra professione. Auspicabilmente accompagnati e sostenuti dalle Organizzazioni e da chi, in queste, dovrebbe avere il mandato e lo “spessore” per affiancarci, possibilmente al letto del paziente.

Ricordandoci che sono proprio questi i valori che ci sono stati trasmessi da quella generazione che oggi rischia di esser lasciata morire in base a un algoritmo proposto da una società scientifica.
 
Claudio Agostini
Coordinatore Dipartimento di Psichiatria APSS Trento


04 aprile 2020
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