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Confindustria. La salute crea ricchezza (11,2% Pil). Ma spendiamo 13% in meno dell'UE


A fronte di una spesa (pubblica e privata) di circa il 9%, la filiera salute crea ricchezza per il Paese in misura dell'11,2%. Ma servono comunque riforme puntando innanzittutto sulla sanità integrativa. La nostra spesa resta più bassa della media UE. Ecco il Rapporto 2012 della Confindustria.

29 FEB - La filiera della salute è un settore vitale per la nostra economia. Il Rapporto di Confindustria dedicato a “Struttura e performance della filiera della salute” (dati 2007-2010) non ne fa certamente una questione di principio, ma elenca dati e cifre.
 
Il più eclatante è che la salute assorbe quasi il 9% della spesa, tra pubblica e privata, ma "restituisce" circa l’11,2% del Pil in termini di ricchezza prodotta per il Paese. Il secondo è che si tratta di un settore ad alto tasso di investimento in ricerca e sviluppo: in media l’industria della salute reinveste il 9,5% dei profitti, che per la sola farmaceutica salgono all’11,7%. Per fare un raffronto basti dire che il tessile reinveste per il 1,7%, la chimica per l’1,9% e l’elettronica per il 6,5%. Di conseguenza, ed è il terzo dato importante, la filiera della salute ha un peso rilevantissimo (6,2%) nell’export nazionale, dove svettano i macchinari industriali (18,6%), seguiti da tessile (7,4%), metallurgico (7,2%) e industria dell’auto (7%), mentre l’alimentare si colloca decisamente dietro (5,4%).
E la filiera della salute, non va dimenticato, dà occupazione a oltre un milione e mezzo di addetti (1.567.800, per la precisione), che salgono a quasi tre milioni (2.822.000) considerando l’indotto.

Dati positivi, ma che non riducono le preoccupazioni di Confindustria anche riguardo alla crisi che il paese sta affrontando. “Le manovre di finanza pubblica dell’estate 2011 determineranno un impatto importante anche nella politica sanitaria” si legge nel rapporto, che prosegue “tale stretta finanziaria – coerente con gli obiettivi di bilancio a breve – se non riferita ad un  periodo di tempo limitato, rischia di creare un progressivo ‘blocco’ del sistema, con la conseguente ‘compressione’ dell’esigibilità dei livelli essenziali di assistenza e una allungamento dei tempi di pagamento delle imprese fornitrici”.  Insomma, guai in vista per cittadini e aziende.

Le soluzioni proposte nel rapporto sono chiare. Da una parte “ancora molto resta da fare nella lotta alle inefficienze, agli sprechi e anche al malaffare”, da combattere con maggiori controlli e bilanci pubblicati in internet. Occorre poi “reingegnerizzare il sistema sanitario, costituendo una vera rete dell’assistenza territoriale, con l’uso di strumenti tecnologici,  al fine di contenere il frequente ricorso da parte dei cittadini all’utilizzo dell’ospedale”. Infine, va “superata una visione ancora troppo ancorata al riconoscimento della sanità italiana come sistema unicamente pubblico”. Secondo Confindustria “da tempo, ormai, la sanità italiana deve considerarsi un  sistema misto pubblico-privato”, sia sotto il profilo degli erogatori sia sotto il profilo della spesa. La forte spesa privata è “un indicatore del fatto  che l’universalismo del sistema (…) appare ormai come teorico, non riflettendosi più nella realtà dei fatti”. Ne discende che occorrerebbe pensare ad “un intelligente sistema di copayment, capace di “diffondere tra i cittadini la consapevolezza che la sanità, anche se pubblica, non  è gratuita”. E che inoltre “spingerebbe gli stessi ad integrare la copertura pubblica  aderendo con le proprie risorse private alle forme di sanità integrativa”.
Un rafforzamento del “secondo pilastro” da ottenersi anche, sottolinea il rapporto di Confindustria, con una forte poilitica di incentivi fiscali e che, moltiplicando i terzi paganti, “contribuirebbe a far crescere la trasparenza del sistema nel suo complesso”.
 
Da sottolineare infine che in Italia il livello della spesa per abitante a parità di potere d'acquisto (1.900 euro) è risultato inferiore di oltre 13 punti percentuali rispetto al dato medio della UE-15 e di oltre 20 punti rispetto a quello delle due maggiori economie europee, cioè Germania e Francia (rispettivamente 2.500 e 2.400 euro).

29 febbraio 2012
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