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Un errore riaprire i piccoli ospedali

di M.Bobini, A.Furnari, A.Ricci

22 DIC - Gentile Direttore,
abbiamo letto con interesse il contributo del dott. Claudio Maffei “Il DM 70 va ritoccato e non abolito, nei fatti, come sta facendo la Regione Marche”. L’autore sottolinea una volontà politica sempre più diffusa e bipartisan di ripristinare i piccoli ospedali per acuti, negli ultimi anni spesso riconvertiti, e come questa tendenza sia l’effetto di un insufficiente investimento nei servizi territoriali che avrebbero dovuto trovare spazio nelle mura degli ex ospedali. I cittadini hanno percepito un impoverimento dei servizi, reso drammatico dalla crisi del Covid-19: uno smarrimento che è stato intercettato dalla politica, spesso alla ricerca di rassicuranti modelli del passato.
 
Facciamo un passo indietro: perché un paziente dovrebbe diffidare di un piccolo ospedale? Quali sono i servizi offerti da queste strutture e come vengono erogati? A questo proposito vorremmo portare alcuni dati del Rapporto OASI 2020. Il nostro lavoro, sulla base dei dati 2018 di Ministero della Salute e PNE, ha fornito un “identikit” dei piccoli ospedali con pronto soccorso (PS) del Paese.
 

 
Senza considerare 40 ospedali situati in zone montane o nelle isole minori, stiamo parlando dei 115 presidi per acuti, diffusi in tutto il Paese, con meno di 100 PL e meno di 50 accessi giornalieri appropriati al PS: in sostanza, meno di tre accessi all’ora al netto dei codici bianchi e delle ore notturne. Restando sul pronto soccorso, colpisce l’esiguità dei codici rossi, che sono in media 76 all’anno, quasi uno ogni cinque giorni. Nonostante si tratti di ospedali molto piccoli, la frammentazione organizzativa è elevata: in media, hanno 6 reparti da 10 posti letto riferibili a 5 discipline. Il 30% ospita almeno un’unità operativa di alta specialità, vale a dire quelle discipline, come la cardiologia interventistica, che sarebbero da localizzare in ospedali di secondo livello (hub).
 
Anche i dati di attività offrono un quadro altrettanto interessante (Figura 1): 16 tra questi ospedali eseguono angioplastiche percutanee, ma solo 2 (12%) raggiungono le 250 procedure annue indicate dal DM 70. Cinquantacinque ospedali prendono in carico infarti miocardici acuti, ma solo 9 (16%) raggiungono i 100 pazienti ritenuti la soglia di sicurezza minima. Va meglio con le altre prestazioni monitorate dal DM 70, che del resto fanno riferimento a discipline a maggiore diffusione come la chirurgia generale e l’ortopedia. Evocativo il dato degli interventi per tumore mammario, eseguiti in soli tre ospedali: da anni è in corso la formalizzazione delle reti oncologiche con la concentrazione delle casistiche verso breast unit e centri specializzati. I risultati emergono dai numeri e testimoniano che è possibile agire sulle reti di offerte a beneficio dei pazienti.
 
Con questo identikit non si vuole sostenere che i muri o le persone dei piccoli ospedali abbiano un ruolo marginale nella crisi Covid o nel futuro del SSN, anzi. Né pensare a una chiusura generalizzata e lineare di questi piccoli presidi. Nelle zone effettivamente isolate esistono soluzioni collaudate per mantenere attivi e il più possibile sicuri quegli ospedali: dalle equipe chirurgiche itineranti alla telemedicina.
 
Queste soluzioni però non possono essere la norma. Gli organici, se non diminuiranno, non potranno crescere molto in un Paese economicamente stagnante, anziano e indebitato. Non potremo costringere i relativamente pochi medici e infermieri a fare la spola tra tre-quattro ospedali alla settimana. D’altro canto, dove la presa in carico delle urgenze gravi è già adeguatamente garantita esiste l’opportunità di valutare la soluzione dell’accorpamento e della specializzazione ospedaliera per le attività elettive e della parallela riconversione degli attuali piccoli ospedali in strutture territoriali, a partire ad esempio dall’attuale vocazione produttiva, dalla consistenza delle attività ospedaliere, dalla domanda di salute specificatamente espressa dal territorio.
 
Nell’era post-Covid non si tratta di tagliare posti letto per acuti, ma di raggiungere maggiore massa critica e conseguente competence clinica, fornendo in parallelo l’opportunità di concentrare il parco tecnologico. Al contrario, anche nel malaugurato caso del ritorno di un’epidemia comparabile al Covid, non servirà a molto aver riaperto qualche piccolo reparto chirurgico a vocazione generalista o aver mantenuto un’emodinamica che serve 60.000 abitanti invece di 600.000.
 
Evitiamo quindi di impiegare le preziose risorse europee in arrivo per ritrovarci nel 2030 con la rete parcellizzata del 2000, che già oggi fornirebbe un’assistenza lontana dai parametri attuali di qualità; sarebbe disallineata alla domanda di salute sospinta dalle patologie croniche; oltre a essere poco sostenibile economicamente e operativamente. Diamo invece la priorità al rafforzamento del territorio e alla sua reale integrazione con un ospedale più moderno e sicuro. Offriamo ai cittadini ciò che chiedono: salute e servizi di prossimità come le cure primarie, e non muri con contenuti insufficienti e pericolosi come gli ospedali senza casistica.
 
Michela Bobini
Junior Research Fellow, SDA Bocconi, CERGAS
 
Alessandro Furnari
Research Fellow, SDA Bocconi, CERGAS
 
Alberto Ricci
Associate Professor of Practice, SDA Bocconi, CERGAS

22 dicembre 2020
© Riproduzione riservata

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