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Forum 180. Lasalvia: “Cosa è mancato in questi cinquant’anni di salute mentale senza manicomi”

di Antonio Lasalvia

Diritti, inclusione sociale, lotta allo stigma. Se l’urgenza di porre fine ope legis alla vergogna dei manicomi non aveva permesso all’epoca di preparare adeguatamente i contesti comunitari in cui gli ex internati, dopo l’esperienza manicomiale, si venivano a trovare, non si comprende come negli anni a venire non si sia sistematicamente posta in essere una azione volta ad assicurare alle persone che progressivamente andavano a sviluppare de novo problemi di salute mentale un clima propizio per poter fruire dei servizi psichiatrici e delle altre risorse formali e informali presenti sul territorio

02 NOV -

Ho letto con estremo interesse il volume “Oltre la 180” di Ivan Cavicchi, con il quale mi sento in sintonia su molte delle tesi esposte. È però dalle sue perorazioni finali che desidero partire per il ragionamento che qui svolgerò. Cavicchi ci ricorda che “è arrivato il momento di prendere coscienza delle tante difficoltà del nostro tempo e di fare delle scelte di campo”, sottolineando che “cambiare il nostro modo di pensare alla salute mentale significa misurarci in campo aperto con le complessità del nostro tempo e soprattutto con i nostri limiti”.

Dalla lettura del testo e dall’analisi retrospettiva dei fatti che hanno scandito le tappe principali di quasi cinquant’anni di tentativi (più o meno riusciti) di implementare nel nostro Paese un’assistenza psichiatrica secondo i principi della Legge 180, temo che emerga - per mancanza – una questione che ha finito per rappresentare un limite importante di un provvedimento che aveva come base programmatica di spostare l’asse della cura dai manicomi alla comunità.

Quella, cioè, di non avere prestato la dovuta attenzione al lavoro di “bonifica” del contesto in cui le persone con problemi di salute mentale andavano a vivere. Se l’urgenza di porre fine ope legis alla vergogna dei manicomi non aveva permesso all’epoca di preparare adeguatamente i contesti comunitari in cui gli ex internati, dopo l’esperienza manicomiale, si venivano a trovare, non si comprende come negli anni a venire non si sia sistematicamente posta in essere una azione volta ad assicurare alle persone che progressivamente andavano a sviluppare de novo problemi di salute mentale un clima propizio per poter fruire dei servizi psichiatrici e delle altre risorse formali e informali presenti sul territorio.

Per essere più preciso, mi riferisco al fatto che la nostra società, a tutti i livelli, allora come ora, aveva (ed ha) una sorta di repulsione nei confronti delle persone con problemi di salute mentale, una repulsione che fa rifiutare, escludere, allontanare, discriminare tali persone da contesti e situazioni proprie della vita sociale. Questo atteggiamento di repulsione rappresenta il frutto avvelenato dello stigma che ancora avvolge tutti i temi che riguardano la salute mentale e che, conseguentemente, colpisce le persone con disturbi psichiatrici. Il termine stigma definisce l’insieme di connotazioni negative che vengono pregiudizialmente attribuite alle persone con problemi di salute mentale a causa del loro disturbo.

Lo stigma legato ai disturbi mentali è fortemente radicato nella coscienza collettiva, è estremamente pervasivo ed è difficile da sradicare. Non esite paese, società o cultura al mondo in cui le persone con disturbo mentale vengano considerate alla stessa stregua di chi non soffre di tali disturbi. L’atteggiamento di qualunque popolazione verso chi ha un problema di salute mentale è generalmente di svalutazione, se non di aperto disprezzo. E ovviamente il nostro Paese è tutt’altro che immune da atteggiamenti e comportamenti dettati dallo stigma.

Lo stigma rappresenta per le persone con disturbi mentali una dimensione di sofferenza che si aggiunge all’esperienza di malattia e che ha concrete ripercussioni sulle reali possibilità di integrazione sociale. Lo stigma, soprattutto per chi soffre dei disturbi mentali più gravi, rappresenta una vera e propria “seconda malattia”, un marchio di vergogna che rimane tenacemente adeso alla propria immagine e alla propria persona, anche a distanza di tempo e anche qualora il disturbo si sia clinicamente risolto. Le persone con problemi di salute mentale sono quindi sottoposte ad una doppia sfida: da un lato devono confrontarsi con le conseguenze dirette del proprio disturbo, in termini di sofferenza e dolore; dall’altra devono subire gli stereotipi e i pregiudizi derivanti dalle errate concezioni sui disturbi mentali, che minano alla base un’accettabile qualità della vita.

La domanda che allora dovremmo porci è se, nel nostro Paese, a distanza di quasi cinquant’anni dalla chiusura dei manicomi e dall’avvio dell’assistenza territoriale l’immagine pubblica ed il grado di accettazione sociale delle persone con disturbi mentali siano migliorate.

Questo quesito potremmo provare ad articolarlo attraverso esempi tratti dalla vita quotidiana di molti pazienti: “È più facile oggi rispetto a cinquant’anni fa per chi ha un disturbo mentale (e per le relative famiglie) poter parlare apertamente dei propri problemi, ricevere solidarietà, accoglienza e manifestazioni di vicinanza da parte degli altri?”, “Pone meno vergona e senso di disagio ammettere a sé stessi e agli altri di avere un problema di salute mentale?”, “E’ più facile oggi rispetto al passato - al netto di una legislazione che dovrebbe tutelare diritti ed interessi dei più fragili - mantenere il posto di lavoro dopo una crisi depressiva che ha tenuto lontana una persona dal circuito produttivo per alcuni mesi?”, “E’ più facile oggi rispetto al passato riuscire a trovare un lavoro ed inserirsi davvero nel sistema occupazionale da parte di un giovane che con indicibili difficoltà è riuscito a venire fuori da una prima crisi psicotica?”, “È più facile oggi rispetto al passato per un gruppo di ex utenti di un servizio psichiatrico riuscire a prendere in affitto un appartamento sul libero mercato e farsi accettare come vicini di casa senza suscitare (quanto meno) sospetto e diffidenza?”.

E potremmo andare avanti. I dati che potrebbero aiutarci a rispondere a tali quesiti purtroppo mancano, in quanto non ci si era premurati all’epoca di valutare empiricamente e in maniera sistematica lo stigma percepito nella vita di tutti i giorni da parte delle persone con disturbi mentali e, parallelamente, gli atteggiamenti/comportamenti stigmatizzanti della popolazione generale nei confronti di chi aveva un problema di salute mentale. Quindi non possiamo fare un confronto tra oggi ed allora.

Tuttavia, i dati di cui disponiamo oggi indicano che nel nostro Paese la percezione dello stigma da parte delle persone con disturbi mentali si situa complessivamente attorno al 30%-45%; e la percezione di essere trattati ingiustificatamente in maniera diversa solo perché affetti da un disturbo mentale in oltre il 70% dei pazienti impedisce di dichiarare apertamente di avere un problema, nascondendo agli altri il proprio disturbo (con tutte le ripercussioni negative sulla mancata richiesta di aiuto e sul senso di isolamento che ne conseguono) (Lasalvia et al., 2013; 2014).

Questo vale sia per le persone che hanno disturbi più gravi, come ad esempio quelli psicotici, che per le persone che soffrono (o hanno sofferto) di disturbi che solo apparentemente sembrano avere guadagnato una maggiore accettazione sociale, come quelli depressivi. E, anche se ciò non ha valore statistico, sono certo che chi lavora in un servizio di salute mentale ha bene in mente una serie di situazioni in cui la risposta ai quesiti sopra sia “NO”.

Come corollario alle domande precedenti, potremmo anche chiederci se in un sistema come il nostro - che ha abbandonato oramai da anni l’opzione asilare a favore del trattamento nella comunità - l’immagine pubblica ed il grado di accettazione sociale delle persone con disturbi mentali siano migliori rispetto a paesi che continuano a fare ricorso ai manicomi o istituzioni che (magari ammodernate e ripulite) a questi si richiamano. Vale a dire praticamente a tutto il resto del mondo.

Ebbene, dati tratti da studi internazionali relativamente recenti, condotti con analoga metodologia in differenti paesi del mondo (sia nei paesi ad alto reddito, che a reddito medio-basso o a basso reddito), hanno purtroppo messo in luce che la percezione di discriminazione da parte delle persone con disturbi mentali nel nostro Paese non è meno frequente rispetto a quella che si registra in paesi in cui vige ancora un sistema basato sui manicomi (Thornicroft et al., 2009; Lasalvia et al., 2015). E credo che anche questo dato ci debba indurre a qualche riflessione.

Forse in questi anni ci siamo troppo applicati in questioni di modellistica o di “ingegneria organizzativa”, comprensibilmente impegnati ad implementare e sviluppare un accettabile rete di servizi sul territorio che (come giustamente ricorda Cavicchi) purtroppo non era stata prevista nei dettagli da una norma-quadro come la Legge 180.

Questo però ci ha fatto perdere di vista i contesti in cui gli utenti dei nostri servizi vivono, si ammalano e nei quali debbono rientrare alla dimissione di una crisi acuta o dopo lunghi periodi di trattamento residenziale. Insomma, probabilmente abbiamo mancato di confrontarci a tutto tondo con la società, nel “campo aperto” cui credo facesse riferimento Cavicchi, ed agire su questa per realizzare le condizioni minime affinché le persone con disturbi mentali possano sentirsi davvero a “casa”, in un contesto accogliente ed integrante. Qualcuno ha giustamente invocato il concetto di “comunità che cura”, richiamandosi ai presupposti alla base della psichiatria di comunità, ma con questi chiari di luna potremmo molto più realisticamente accontentarci che la comunità non sia eccessivamente patogena…

E non è possibile, ragionando degli effetti perniciosi dello stigma, non aprire una riflessione rispetto a quanto i nostri servizi, ora come allora (all’alba della loro istituzione), siano effettivamente precipiti dalle persone ai quali si rivolgono e dalle loro famiglie come luoghi accoglienti, non stigmatizzanti, stimolanti, che incoraggiano l’autodeterminazione e l’emancipazione.

In realtà, i dati di cui disponiamo ci ammoniscono che un terzo delle persone con disturbi mentali si sentono trattati in maniera ingiustificatamente pregiudiziale negli stessi servizi psichiatrici (Lasalvia et al., 2015). Ad onor del vero questo fenomeno non è tipicamente italiano, ma è presente in molti altri paesi occidentali. Gli stereotipi della inguaribilità, inaffidabilità, pericolosità e irresponsabilità sono fortemente radicati nella nostra società ed agiscono - a livello tacito, inconsapevole - in maniera molto potente su tutti i suoi membri; e da questi stereotipi anche gli operatori dei servizi di salute mentale non sono immuni.

D’altro canto, già la letteratura scientifica oltre vent’anni fa aveva rilevato negli operatori della psichiatria un desiderio di distanza sociale verso le persone con disturbi mentali del tutto simile a quello della popolazione generale (Lauber et al., 2006). E, per rimanere in questo ambito, la stessa letteratura ci dà conto oramai da molto tempo di tutto quell’insieme di comunicazioni o comportamenti di tipo espulsivo (noto come “alienazione maligna”; Morgan et al., 1979), che il singolo operatore o il gruppo di lavoro (a volte consapevolmente, più spesso inconsapevolmente) tende a mettere in atto nei confronti di quei pazienti più difficili e dagli atteggiamenti maggiormente sfidanti, che esitano nell’interruzione dalla presa in carico e nel conseguente rischio di suicidio. Insomma, il tema dello stigma nei servizi di salute mentale necessita, senza ipocrisie ed infingimenti, di essere portato alla luce ed affrontato seriamente.

Infine, alcune considerazioni sul ruolo degli operatori dei servizi nel campo della lotta allo stigma. Le azioni anti-stigma debbono essere primariamente realizzate e portate avanti degli utenti dei servizi, dalle loro associazioni (e da quelle dei familiari), dalle cooperative e dalle organizzazioni di volontariato che operano nel campo della salute mentale, da singoli cittadini impegnati a migliorare la vita delle nostre comunità (Corrigan, 2016).

A noi operatori spetta il compito di agire da catalizzatori di questi processi, di mettere a disposizione le nostre competenze tecniche per aiutare gli utenti a sviluppare le competenze necessarie per guidare e governare di tali iniziative, di fare operazioni di lobbying a livello politico e istituzionale e di fare, soprattutto, advocacy.

Con questo ci si riferisce a quell’ampio ed eterogeneo ventaglio di azioni aventi l’obiettivo di promuovere i diritti umani delle persone con problemi di salute mentale all’interno della legislazione vigente e di garantire che i temi della salute mentale siano messi al centro dell’agenda dei decisori politici. In particolare, le attività incluse all’interno del concetto di ‘advocacy’ comprendono interventi mirati ad accrescere la consapevolezza della popolazione sui temi della salute mentale, la disseminazione di informazioni corrette e scientificamente fondate, la mediazione, la difesa e la denuncia degli abusi sui pazienti.

Tutte queste attività sono finalizzate a rimuovere le barriere che le persone con problemi di salute mentale incontrano nel corso della propria vita, quali, ad esempio, la carenza di servizi o servizi poco accessibili, la violazione dei diritti, la mancanza di iniziative di promozione della salute, la mancanza di alloggio e la disoccupazione.

Nel capitolo del libro dedicato agli operatori dei servizi - gli “equilibristi” (ai quali mi sento iscritto di ufficio; mai termine fu più felice ed evocativo…!) - Cavicchi identifica una serie di requisiti che dovrebbero qualificare chi lavora in salute mentale - “umanisti e scienziati al servizio dei diritti dell’uomo e quindi dello Stato” e in quanto tali “produttori di scienza e di umanità” (pag. 229). Ecco, l’azione di advocacy è proprio un’attività al servizio dei diritti dei nostri pazienti. E credo rappresenti un compito non meno prioritario degli interventi terapeutici che (come tecnici) siamo comunque tenuti a fornire. Non certamente un’attività accessoria.

In conclusione, l’interesse per la lotta allo stigma nel nostro Paese è stato piuttosto tiepido, soprattutto a livello delle istituzioni nazionali. È pur vero che nel corso degli anni sono state promosse e realizzate a livello locale numerose iniziative di sensibilizzazione sui temi della salute mentale; tuttavia, si è generalmente trattato di iniziative estemporanee e, soprattutto, di incerta efficacia rispetto ai risultati conseguiti. Sinora nel nostro Paese è mancato un grande progetto di lotta allo stigma, organico e diffuso sull’intero territorio nazionale, dotato di un’unica regia e di una strategia complessiva, sostenuto nel tempo, adeguatamente finanziato e basato sulle migliori evidenze scientifiche.

E dispiace rilevare che la seconda Conferenza Nazionale sulla Salute Mentale del giugno 2021, avvenuta a seguito di un percorso di approfondimento di oltre un anno attraverso i lavori del tavolo tecnico istituito presso il Ministero della Salute, non abbia posto adeguata enfasi al tema della lotta allo stigma e alla promozione di tutti i diritti delle persone con disturbi mentali.

Purtroppo, nel rapporto conclusivo (ad eccezione di un unico riferimento al TSO e alla contenzione meccanica) manca qualunque respiro programmatico a quanto è invece necessario fare per rendere il nostro ambiente sociale (unitamente al sistema dei servizi) più attento ai diritti delle persone con disturbi mentali, compreso quello a vivere in contesto libero dallo stigma (Ministero della Salute, 2021). Abbiamo nuovamente perso - credo - una buona occasione. Mi auguro vivamente che non ne manchino altre nell’immediato futuro.

Antonio Lasalvia

Professore Associato di Psichiatria, Università di Verona

Referenze
Corrigan P.W. (2016). Lessons learned from unintended consequences about erasing the stigma of mental illness. World Psychiatry 15, 67-73.

Lasalvia A., Zoppei S., Van Bortel T., et al. (2013). Global pattern of experienced and anticipated discrimination reported by people with major depressive disorder: a cross-sectional survey. Lancet 381, 55-62.

Lasalvia A., Zoppei S., Bonetto C., et al. (2014). The role of experienced and anticipated discrimination in the lives of people with first-episode psychosis. Psychiatr. Serv. 65, 1034-1040.

Lasalvia A., Van Bortel T., Bonetto C., et al. (2015). Cross-national variations in reported discrimination among people treated for major depression worldwide: the ASPEN/INDIGO international study. Br. J. Psychiatry 207, 507-514

Ministero della Salute. Per una salute mentale di comunità. Tavolo tecnico Salute Mentale. Documento di sintesi, maggio 2021 https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_3084_allegato.pdf

Morgan H.G. (1979). Death wishes? The understanding and management of deliberate self-harm. Jonn Whiley, Chichester.

Thornicroft G., Brohan E., Rose D., et al. (2009). Global pattern of experienced and anticipated discrimination against people with schizophrenia: A cross-sectional survey. Lancet 373, 408-415.

Leggi gli altri interventi: Fassari, Cavicchi, Angelozzi, Filippi, Ducci, Fioritti, Pizza, d'Elia, Cozza, Peloso, Favaretto, Starace, Carozza,Thanopulos, G.Gabriele, Quintavalle, Nicolò, Ceglie



02 novembre 2022
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