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Aziendalizzazione in sanità: la storia di un fallimento

di Ettore Jorio

I motivi della sua debacle vanno fatti risalire, principalmente ad una disciplina normativa troppo permissiva che ha consentito tutto a prescindere, con un sistema aziendalistico, che persino di aziende ha ben poco se non dei loro peggiori difetti.

19 FEB -

A leggere il Rapporto Fnomceo-Censis, ritorna alla memoria il dibattito sulla opportunità di avere aziendalizzato nel 1992 il Servizio Sanitario Nazionale e di mantenerlo tale. Un incipit che svilì il primato della salute sul quale era stata costruita la riforma del 1978 - introduttiva del Ssn, sostitutivo del sistema mutualistico, e del finanziamento impositivo piuttosto che contributivo – dal momento che vennero meno alcune priorità ritenute fondamentali nell’addivenire dopo decenni a concepire una legge, la nr. 833/78, apprezzata in tutto il mondo. I protagonisti del sistema furono individuati nella persona, nelle sue esigenze primarie psicofisiche, il territorio garante della assistenza sociosanitaria spostata verso il luogo di dimora degli individui, la tutela della salute e dunque del suo mantenimento con la prevenzione in prima fila, gli enti locali come istituzioni di programmazione e vigilanza nell’organizzazione sistemica.

Tutto questo attraverso il riconoscimento dell’universalismo, inteso come risultato che a pagare il suo mantenimento fossero i titolari di reddito a vantaggio di chi ne fosse senza, dell’uniformità, assicurata da un sistema ideologicamente equamente diffuso, della globalità e socialità assistenziale, nel senso di garantire le tre fasi della prevenzione, cura e riabilitazione integrata con l’assistenza sociale.

L’aspettativa delusa

Le cose non andarono propriamente così, perché a causa dell’errato coinvolgimento diretto dei comuni nella gestione si addivenne ad una conduzione atecnica e alla formazione di istanze di improprio arricchimento di strutture di alcuni comuni rispetto ad altri.

Da lì il passo fu breve per cambiare, tenuto conto delle enormi difficoltà economiche dell’allora governo presieduto da Giuliano Amato. Si arrivò quindi al d.lgs. 502/92, introduttivo dell’aziendalismo, soggetto a diverse integrazioni, soprattutto di quella consistente prodotta dal d.lgs. 229/1999 che ne raddoppiò e oltre l’articolato.

Nei ventisei anni successivi le cose non andarono molto bene, principalmente per quella parte del Paese che non ebbe ad ereditare ab initio le necessarie infrastrutture di accesso e di godimento al bene Salute, oltre che essere completamente sguarnita di Irccs, quei 51 presidi di altissima qualità che rappresentano da decenni la vera ricchezza erogativa del Ssn, prescindendo se a gestione pubblica o privata.

Al di là della evidenziata “deriva aziendalista”, rappresentata nell’anzidetto pregiato studio Fnomceo-Censis dell’11 luglio del 2024, le condizioni di notevole precarietà dell’assistenza sociosanitaria vissuta nell’intero Paese, con punte di assoluto disservizio nel Mezzogiorno, peggiorate in presenza e a seguito della pandemia Covid, si profila la necessità di un cambiamento radicale del Servizio sanitario nazionale.

Le solite facili richieste ma nessuno che dice cosa fare

In circolazione nessuna proposta degna di questo nome, le rivendicazioni che si alternano come in una fastidiosa cantilena sono ben lontane dalla soluzione. Quella più ricorrente riguarda la maggiorazione di qualche miliardo di euro del finanziamento dell’obsoleto Fondo sanitario nazionale, senza minimamente accennare al reale cambiamento che occorrerebbe in termini finanziari. In buona sostanza, quello che è in Costituzione dal 2001 che pretende l’abbandono della spesa storica, la messa da parte della quota pro capite ponderata in ragione dell’età dei cittadini destinatari, l’individuazione dei costi standard per Lea, la valorizzazione dei fabbisogni standard per ogni singolo Servizio sanitario regionale, la garanzia di un fondo perequativo per assicurare uguale trattamento assistenziale alle Regioni più povere.

A ben vedere, nessuno, ma proprio nessuno, prende coscienza reale del danno minacciato alla Salute limitandosi a chiedere ai governi che scorrono maggiori finanziamenti di quelli di ieri.

Il problema assume invece connotati diversi. I quattrini ci sono stati e pure ampiamente: il dramma è che nessuno ha pensato come spenderli bene. Meglio, a come investirli! Tutto buttato nella spedalità, pochissimo sul territorio e quasi nulla nella prevenzione. Quanto alla prima, molto distribuito in favore del privato, che gareggia spesso con impudicizia e la complicità di una parte del sistema pubblico che alza le mani in suo favore.

Sul tema, con una storia di oltre vent’anni ove la sinistra e la destra hanno preteso e fatto la stessa cosa, gli ultimi quattro governi si sono distinti per incapacità politica ad affrontare una politica sociosanitaria degna di questo nome.

Sapere cosa costa e come fare per stare meglio e spendere meno

Le parole d’ordine della sanità sono due: la previsione e la prevenzione. Due sostantivi che, nell’esercizio delle politiche della salute, sono più che sinergici. Sono l’una la condizione dell’altra, a tal punto da essere molto più che complementari.

Per una buona sanità si rende necessario che a prevederne i costi in sviluppo vi sia condivisione da tutta l’area parlamentare. Ciò nel senso che vanno individuati i tagli delle inutilità, che sono tantissime e dispendiosissime, da stornare in favore di un fabbisogno sanitario nazionale che potrebbe risultare sufficiente solo a condizione che il sistema venga riformato dalle sue radici.

Necessita, dunque, ridisegnare il Servizio sanitario nazionale perché lo stesso - seppur mantenendo ben saldi i principi cardine della legge n. 833/78 - vada a realizzare un rinnovato sistema gestorio, attraverso il superamento di quell’aziendalismo teorico e meramente nominalistico, che ha registrato il suo fallimento con i pessimi risultati prodotti, specie negli ultimi quindici anni. I motivi della sua debacle vanno fatti risalire, principalmente ad una disciplina normativa troppo permissiva che ha consentito tutto a prescindere, con un sistema aziendalistico, che persino di aziende ha ben poco se non dei loro peggiori difetti.

L’Agenzia dello star bene

Una soluzione possibile potrebbe essere quella di agenzificare il Ssn. Un po’ come avvenuto con le Agenzie dell’Entrate e affini. Con quelle regionali ad essere gli organismi di sviluppo delle politiche sociosanitarie volute della Regioni e del sistema dei comuni, autentici interpreti sul campo della sussidiarietà istituzionale.

E’ la storia della precarietà complessiva del diritto alla tutela della Salute. Da qui la necessità di de-aziendalizzare il servizio sanitario nazionale e di “agenzificarlo”, l’unica scelta che gli offrirebbe l’occasione di assicurare, da subito, una performance di maggiore qualità e un futuro certamente migliore. L’esigenza di intervenire legislativamente c’è, e come. Occorre la messa in campo dell’onere parlamentare di approvare una riforma quater, intervenendo non necessariamente in continuità con quelle che hanno condotto all’attuale modello organizzativo, resosi responsabile di aver generato 21 sistemi della salute, alcuni dei quali difficili a riconoscersi come garanti dei diritti costituzionali e adempienti con l’equilibrio di bilancio e del rispetto dei vincoli dell’UE.

Ettore Jorio



19 febbraio 2025
© Riproduzione riservata


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